mercoledì 20 aprile 2011

Lucia e Bertilla, angeli a Bombay

Predicare il Vangelo fino agli estremi confini della terra… La missione oltre che a travalicare il mondo, richiede un impegno che si dilata nel tempo: difficilmente chi è inviato dallo Spirito si volta indietro e, spesso, la storia dei missionari e delle missionarie coincide con la ricerca instancabile, per tutta la vita, di qualcosa per cui valga la pena impegnarsi e spendere il proprio entusiasmo, il tempo e le energie.
È questo il caso di suor Bertilla Capra, missionaria dell’Immacolata, che ha visitato la nostra Parrocchia lo scorso anno a maggio e che aiuteremo anche quest’anno con i proventi della nostra vendita missionaria. Condivide la sua missione con suor Silvia, che vogliamo conoscere attraverso questo articolo comparso su Avvenire qualche anno fa.


Due suore italiane, un unico impegno accanto ai lebbrosi e ai dimenticati.
3 febbraio 2008 – di Anna Pozzi

Shila ha due moncherini al posto delle mani, il viso è deformato, il naso e la bocca quasi inesistenti. Un piede è fasciato per proteggere una brutta piaga che comincia a infettarsi. Eppure prova a sorridere, in una smorfia che fa dolore e tenerezza. Quando sister Lucia dice che curare i malati di lebbra è una vocazione nella vocazione non si può non crederle. E anche per sister Bertilla è così, qualcosa di assolutamente naturale. Sono 37 anni che se ne occupa: la sua vocazione, la sua vita, la sua famiglia. Abbraccia un ragazzino il cui viso è completamente devastato, come se fosse accartocciato. È uno dei “suoi” ragazzi: «Adesso sta molto meglio, e migliorerà ancora», dice fiduciosa.
Lucia Pala, 63 anni, sarda, e Bertilla Capra, 69 anni, bergamasca, sono due missionarie dell’Immacolata, rispettivamente da 30 e 37 anni in India. Sempre a curare i malati di lebbra. Insieme a un piccolo gruppo di religiose indiane si occupano del «Vimala Dermatological Centre», alla periferia di Bombay, un centro dalle molteplici attività, che gravitano attorno al suo cuore, il lebbrosario, con una settantina di pazienti. Accanto, una casa che ospita una cinquantina di bambine, alcune orfane, altre figlie di lebbrosi. E poi il laboratorio di analisi, il centro per la riabilitazione, le équipe di lavoro negli slum, la scuola di computer, la sartoria e tante altre piccole attività i cui protagonisti sono quasi tutti ex malati di lebbra, guariti, riabilitati, fatti studiare. E accompagnati verso una nuova vita.


«Sin da piccola mi sentivo attratta dall’idea della missione – racconta suor Bertilla, la superiora – forse grazie all’esempio di una cugina missionaria dell’Immacolata. Poi, quando ho seguito la mia vocazione, è cominciato a maturare dentro di me il desiderio di andare in Asia, specialmente in Bangladesh, per servire i più poveri. Sono stata destinata all’India. Venire qui significava occuparsi di malati di lebbra. È quello che ho continuato a fare con entusiasmo per tutti questi anni». Che il ‘lavoro’ l’appassioni lo si vede. Non sta ferma un momento. Sempre sollecita qua e là, ha la battuta pronta e un sorriso per tutti. Specialmente per i suoi malati. Che qui, pur con tutte le loro deformità e mutilazioni, vivono in un ambiente pulito, hanno cibo, cure e attenzioni.
Un Paradiso confronto all’inferno di miseria da cui provengono. Basta aggirarsi per le strade e le baraccopoli di questa immensa metropoli di 16 milioni di abitanti per vederne ovunque. In un Paese che dice di aver sconfitto la lebbra, i lebbrosi sono ancora oggi migliaia. Marchiati dalla malattia e dallo stigma, vengono allontanati dalla famiglia. Sopravvivono in condizioni miserabili, rifiutati da tutti. «Il nostro compito è curarli, certo – aggiunge suor Lucia – ma anche aiutarli a sentirsi di nuovo delle persone, a sentirsi amati. L’importante non è solo quello che si fa per loro, ma come lo si fa. Loro lo sentono se gli vuoi bene». Suor Lucia ricorda come questo amore per i poveri lo avesse imparato dalla famiglia, sempre attenta ai bisogni dei vicini nel suo paese, Bitti, nel Nuorese. Poi, da giovanissima, la visione del film «Molokai» di padre Damiano, le aveva fatto scattare qualcosa dentro (il redentorista belga è stato uno dei primi religiosi ad aver dedicato completamente la vita per i lebbrosi, sino a morirne): «Quel film lo avrò visto almeno una cinquantina di volte», ammette. La sua vocazione, sin dall’inizio, si intreccia con l’idea di missione e di servizio agli ultimi. Eppure non è stato tutto facile o scontato. «Quando arrivi in missione, sei piena di entusiasmo – ricorda -. Poi, la prima volta che ho visto un lebbroso in un villaggio, era in condizioni così orribili e penose che mi sono spaventata. Volevo scappare, ma mi sono fatta forza e sono tornata. L’ho pulito e ho medicato le sue piaghe. Non ho mai più avuto paura».


Entrambe hanno cominciato a Eluru, in una zona rurale dell’Andhra Pradesh, nel sud dell’India. «Una regione poverissima – ricorda suor Bertilla – ancora adesso. Ma la gente è così semplice, accogliente e riconoscente, che ti incoraggia ogni giorno a servirla con gioia». Qui le suore hanno affiancato, sin dal 1948, i missionari del Pime, protagonisti dell’evangelizzazione di questa regione. Ma i cristiani, ancora oggi, sono pochissimi. «Noi ovviamente siamo qui per tutti. Testimoniamo la nostra fede nel servizio agli altri, specialmente ai malati di lebbra». Anche suor Lucia ha cominciato lì. «Non dimenticherò mai quel lebbroso che un giorno mi disse: “Tu sei la prima persona ad avermi toccato”. Non puoi scoraggiarti! Anche quando le piaghe si infettano e si riaprono di nuovo, e si deve ricominciare tutto da capo, continui a pensare che ne vale la pena. È la fede che ci sostiene, ma anche il fatto di vedere che qualcosa in questi malati sta cambiando: cominciano a sentirsi rispettati, a considerarsi di nuovo uomini e donne».
La grande città, ammettono entrambe, è un’altra cosa. C’è meno senso della comunità, la gente si riversa da ogni dove, i rapporti sono più difficili. Forse idealmente è più lontana da quell’idea di “estremi confini” propria della missione. Eppure, oggi, una delle nuove frontiere della missione è proprio nei grandi agglomerati urbani. Vi si sono “riconvertite” anche suor Bertilla e suor Lucia, che hanno ricominciato in questa periferia affollata e caotica di Bombay la loro nuova missione. Ma con una presenza costante che le ha aiutate a sentirsi subito a casa: i loro malati di lebbra, a cui hanno dedicato tutta la vita.

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