Madre Teresa di Calcutta

Nata nel 1910 a Skopje (ex Iugoslavia, ora Macedonia) da genitori albanesi, suora in India dal 1928, Madre Teresa di Calcutta avvertì d’improvviso, irresistibile, la «seconda vocazione», quella che la spinse a lasciare il confortevole convento per andare tra gli «ultimi»: lebbrosi, malati terminali, orfani abbandonati nella spazzatura. Priva di risorse, armata solamente di una fede eroica, la piccola, esile suora, perennemente avvolta nel semplice sari bianco orlato d’azzurro, riuscì a creare un grande, efficiente ordine religioso con ramificazioni in tutto il mondo.
Premio Nobel per la pace (1979), Madre Teresa di Calcutta è considerata un simbolo del nostro tempo per la sua profondissima carità e la totale dedizione di sé in favore dei bisognosi e sofferenti ed è stata beatificata da Papa Giovanni Paolo II nel 2003.


Il buon Dio non mi ha mandato nelle strade di Calcutta per aver successo in ciò che faccio, ma per essere fedele nel testimoniare il suo amore in mezzo alle sofferenze umane.

Tra le opere di Madre Teresa la più conosciuta forse e certo la più popolare è l’opera di raccolta e assistenza dei moribondi abbandonati.
Non uno di questi miseri fu abbandonato da Madre Teresa. Ma presto divennero tanti. Alcuni li scoprì lei di persona nei primi giorni del suo vagabondaggio d’amore, mucchi di stracci inerti in desolata attesa della fine; altri glieli andò segnalando la pietà di gente impotente a trovare rimedi. Occorreva, e subito, un luogo dove radunarli e curarli, passando dall’uno all’altro soccorrevole e pietosa.
Madre Teresa riflette: le due stanze offerte dalla famiglia Gomez sono insufficienti; e quanto spreco di spazio vi è nell’India dai contrasti violenti in cui i palazzi e i tuguri si sfiorano, dove i palazzi sono stati costruiti col solo scopo di mostrare magnificenza e di sfidare i secoli, e i tuguri sono tra i più miseri che mente umana possa concepire!
Un giorno, trova abbandonata in un vicolo una povera inferma qua e là rosicchiata da topi e formiche. Con il cuore colmo di disperato amore, la trasporta in un ospedale.
La solita difficoltà: non c’è posto. E scatta un’idea. Subito si presenta con umile audacia alle autorità governative preposte all’immane compito dell’assistenza. «Non potrei trasportare i miei assistiti nei locali per pellegrini del Kalighat?»
Nel tempio della dea Kali?
La sorprendente richiesta suscita stupore e perplessità. Ma il sorriso della piccola suora è fiducioso, disarmante e fa riflettere.


Dopotutto, quella suora si mostrava rispettosa delle credenze indiane e diceva che sarebbe stata felice di portare i suoi assistiti in un tempio di devozione indù.
Perché dunque respingere l’offerta d’aiuto di questa suora disinteressata, che si è fatta indiana fra gli indiani anche nel rozzo sari che indossa? Il suo dire leggermente inceppato esprime un’ansia d’amore cui non si resiste, il suo viso segnato di fatica pare splendere di luce...
Senza troppo indugio il permesso è accordato. L’autorità non farà dunque opposizione, ma per quanto riguarda l’attuazione pratica del progetto, veda lei, la suora stessa, come vincere l’inevitabile ostilità e gli impedimenti dei sacerdoti di Kali e dei suoi fedeli. Se ci riesce, le sarà anche data una sovvenzione.

Le resta da fare il passo più difficile, e coraggiosamente risolve di compierlo subito. È incalzata dall’amore e dalla necessità e poi... non c’è senso ad aspettare: Madre Teresa è concreta e la sua volontà illuminata d’amore, scattante. Avanti, in nome di Gesù!
Aiutata certo da qualche volonteroso che non ha resistito al suo sorriso e alla sua energia, la Madre, rispettosa ma fermissima, trasporta i casi più urgenti nelle due vaste sale destinate a dormitorio per i pellegrini di Kali, una per gli uomini e una per le donne, e inizia la sua opera salvifica.
I sacerdoti del tempio e molti fra i fedeli sono paralizzati per lo stupore al primo momento. Ma presto le loro proteste salgono alle stelle e la loro indignazione si gonfi a come una montante marea minacciosa.
È inaudito! È una profanazione introdurre malattia e morte nel recinto del sacro tempio. Non è assolutamente possibile che quella piccola suora tranquilla e sorridente abbia ottenuto il permesso di contaminare un tempio indù. Via, bisogna mandarla via.
Si ricorre all’autorità: ma come... come si può osare... Nei sacri recinti... la dea non permette... si vendicherà... I funzionari preposti all’assistenza rispondono netti: «Benissimo. Fate però voi ciò che fa Madre Teresa!». I sacerdoti si ritirano sconfitti, stupiti di esserlo, incapaci di provvedere.
Osservano ostili, insensibili alla luce d’amore che irradia dalla figura della suora, alacre, attiva, gentilmente curva e protettiva sui suoi prediletti. La vedono, indiana fra gli indiani nel vestito, nel linguaggio, nell’atteggiamento, mangiare in una ciotola la stessa minestra che prepara infaticabile per i suoi protetti. La vedono lavare con cura poveri corpi putrefatti e cancerosi, compiere serena i servizi più umili, ripulire senza ribrezzo, con infinito amore, le piaghe più fetide, le ulcerazioni più orrende. La vedono soffrire con quelli che non riesce a salvare, la vedono risplendere a ogni lento e sicuro recupero.


Li ama i suoi poverissimi, li protegge, dona loro la felice meraviglia di sentirsi desiderati, poiché è lei che prova riconoscenza per avere il privilegio di prodigarsi. Essi, i sacerdoti di Kali, rimangono ostinatamente ciechi, asserragliati nel loro fanatismo, e si arrovellano per riuscire a spuntarla, astiosi e maldisposti ogni giorno di più, spesso minacciosi...

Ma un giorno... uno dei preti più accesi nell’osteggiare Madre Teresa si ammala e rapidamente declina. All’ospedale, presto. Non è accettato: non c’è posto. Si prova in un altro, in un altro ancora: niente da fare. Il male del poveretto si profila impietoso, infettivo e disgustante: nessuno vuole occuparsene.
È l’abbandono dunque? La fine?
Madre Teresa spalanca il suo cuore se possibile anche di più, prepara un giaciglio, inizia amorevoli cure, infaticabilmente lotta perché questo suo figlio non muoia e viva.
L’ostilità dei sacerdoti del tempio si muta presto in ammirazione, l’ammirazione in cooperazione volonterosa. E poi, bisogna proprio dirlo: quella piccola suora non chiede conversioni dell’ultima ora e tratta tutti allo stesso modo, con estremo amore: indù, musulmani, cristiani, parsi, sikh, ebrei... Ha rispetto per tutti anche nel rito estremo e non cambia nulla di ciò che è tradizionale per ciascuno...
Ed ecco allora sorgere la prima «Nirmal Hriday», la casa rifugio per i morenti abbandonati.
L’opera avviata si sviluppa rapidamente: gli studenti di medicina cominciano ad andare ogni sabato a sbarbare i morenti e a rendere loro umili servizi, e alcune signore di alta casta vengono regolarmente a lavare poveri corpi insozzati dal male.
Nirmal Hriday significa in sanscrito «Cuore Immacolato» e un’immagine di Maria vi risplende su una parete; il nome vuol essere un omaggio a Colei che conobbe in Cristo agonizzante la più dolorosa delle maternità, e la continua sorreggendo il dolore umano in tutte le sue forme, la più tragica delle quali rimane per tutti la misteriosa prova della morte, quando sulle labbra scolorite di ognuno fiorisce, richiamo di soccorso e di speranza, l’invocazione alla mamma.


Una sera una poveretta viene portata con un’ambulanza alla Nirmal Hriday. Mucchio informe e maleodorante, è deposta su uno dei pochi giacigli vuoti. Da dove viene? Estratta forse da un gran mucchio di rifiuti come non di rado è capitato? Da un fossetto di acqua fetida dove è crollata esausta? Da un giaciglio lurido dove se ne stava abbandonata da giorni?
Madre Teresa, quella sera è presente nella casa dei morenti, e accorre.
Solleva con amore i pochi stracci che ricoprono un fisico devastato.
Signore Iddio, che pietà! Che storia di patimenti narra quel povero corpo scarno, pieno di piaghe che corrodono la scura pelle avvizzita.
Rapida e attenta, Madre Teresa provvede a una pulizia sommaria e a una prima disinfezione. Ma le condizioni della povera donna che forse è giovane appaiono disperate e l’occhio esercitato della Madre se ne accorge presto con lucida pena. Meglio tentare di rianimare subito con cardiotonici, un brodo tiepido e tanto amore. La misera mormora in un soffio: «Perché fai questo?».
«Perché ti voglio bene...» dice piano Madre Teresa con il cuore gonfio d’amore e di pietà.
Una luce di incredula gioia si riverbera dall’interno su quel viso scavato, dove la morte ha già impresso il misterioso segno della sua scelta.
«Oh, dillo ancora!»
«Perché ti voglio bene» ripeté la Madre con ferma dolcezza.
«Dillo ancora, dillo ancora
La morente stringe le mani della Madre e l’attira a sé, per sentire, per sentire tante volte ancora, beata mentre la vita sfugge, le più belle, le più care parole del mondo.


Fin dai primi giorni del suo nuovo apostolato, l’infanzia aveva attirato la carità di madre Teresa, perché l’infanzia, come la vecchiaia, per la sua debolezza ha bisogno di tutto. E in India bambini affamati, bambini abbandonati, bambini malati e deformi se ne trovano in quantità, come pallidi fiorellini in un immenso prato: basta chinarsi.
L’assistenza di Madre Teresa all’infanzia è attivissima, generosa e si avvale dei mezzi più semplici, sempre per poter sempre più allargare il suo raggio di azione, sia perché la madre, indiana fra gli indiani, comprende quanto poco basti ad un bimbo abituato al pochissimo per sentirsi contento ed a suo agio, se si sente amato.
Così, appena madre Teresa ebbe collaboratrici per affiancarla, fiorirono asili e scuole elementari nei bassifondi: sotto un albero, in un cortiletto, in una casupola col pavimento di terra battuta e il tetto di foglie di palma intrecciate, affittata per poche rupie.
Quaderni? Lavagna? Basta il terreno. Libri? Alcune scuole ne scartano, altre ne regalano e tutto è accettato con riconoscenza.
In ognuna di queste scuole i bambini si affollano perché vi respirano allegria e serenità e perché vi trovano anche la loro unica possibilità di apprendere, insieme ad una quotidiana razione di riso e di latte. Sempre basandosi su una gran semplicità di mezzi, la maggiore semplicità compatibile con il proposito, più tardi si inizieranno anche delle scuole secondarie.
Ma ben presto si profilò la necessità di stabili ripari per i bimbi più infelici: e sorgono le «Shishu Bhavans» o «Case dei bambini», nelle quali vengono accolti i neonati abbandonati, i malati senza cure, i menomati.
Alcuni provengono da ospedali, altri sono portati a madre Teresa dalla polizia, altri sono trovati abbandonati, sperduti.
«Da qualunque parte provengano», dice la Madre in un’intervista, «fino ad ora non ne abbiamo rifiutato nemmeno uno».
E, ignara della bellezza delle sue parole, «C’è sempre», aggiunge, «un lettino pronto in più per un bambino in più».
Curati, sfamati, educati, soprattutto amati, quasi tutti i bambini ricevuti nelle Shishu Bhavans si salvano da morte certa, perché la continua sottoalimentazione della vita negli slums li renderebbe oltre a tutto estremamente vulnerabili ad ogni tipo di malattia.


E quanti bambini sono in India vittime innocenti della miseria, dell’egoismo, anche dell’ignoranza incolpevole, la quale non sa risolvere con dignità i suoi problemi! Quando un’indiana non vuole il figlio di cui sente in sé il vivo palpito (e i motivi, svariatissimi, hanno quasi sempre il comune denominatore di un’estrema povertà) verso il sesto mese di gestazione mangia la buccia ancor verde di un particolare frutto. La creatura che nascerà, sempre che la maternità non si interrompa subito per il potere intossicante contenuto nella buccia del frutto, sarà debole, spesso menomata e difficilmente sopravvivrà.
Le Shishu Bhavans ebbero subito bisogno di incubatrici.
Come procurarle? L’amore compie veramente miracoli, in questo caso miracoli di ingegnosità.
Le prime incubatrici per prematuri furono nelle Shishu Bhavans delle grosse scatole di legno adatte per cinque o sei neonati ciascuna, con una reticella per l’areazione ed una lampadina per tenere costante la temperatura accendendo e spegnendo opportunamente. Si passo poi a incubatrici più funzionali, accettando l’offerta d’aiuto di un bravo falegname cinese che fu fiero di prepararne alcune artigianalmente.
«Per la madre Teresa?» aveva detto. «Tutto ciò che posso, gratis, s’intende».

Nelle Shishu Bhavans i bimbi sani crescono felici e i piccolissimi imparano presto senza sforzo a ridere, a far chiasso, ad essere festosi, sviluppando ciò che è nella natura dei bambini di ogni parte del mondo. Quelli ricevuti già grandicelli sono restii ad accogliere la gioia, come ne diffidassero: conoscono la precarietà del vivere e sembrano adattarsi con stento a condizioni di vita che certo appaiono loro troppo belle per essere vere.
Così, la gioia affiora in essi adagio, con lento stupore, con timida incredulità, con un residuo sempre di dolorosa dolcezza negli occhi scuri, spalancati a chiedersi un difficile perché.
Si è notato che ben raramente un bambino indiano cresciuto di stenti nei bassifondi, senza famiglia, come un cagnetto che sopravvive perché raspa tra i rifiuti, pianga. E ciò stringe il cuore, forse anche più del non vederlo ridere. Saggio, precocemente vecchio, il piccolo abbandonato non piange anche se è piccolissimo, perché non sa che si possa essere consolato: quanto al ridere, la sua grama esistenza gli ha pian piano soffocato quel vivo zampillo di gioia così ricco nella sensibilità dei bambini indiani, i quali cantano e danzano come genietti impazziti solo che conoscano il calore dell’affetto sicuro.
Nei reparti dei bambini sani regna il chiasso, spesso anche un po’ di felice confusione. I bambini, abituati alla festosità affettuosa delle suore che cantano, giocano, danzano con loro, prendono il visitatore per mano, gli tendono le braccia per essere sollevati, amano e si fanno amare. Ve ne sono di bellissimi, ma spesso i deformi, nei reparti loro assegnati dove per lo più regna un silenzio attonito, possono apparire anche più belli, nella luce di carità che irraggia tutto intorno.
Quando mangiano, i bambini delle Shishu Bhavans sono in genere tranquilli, anzi, seri e gravi anche se normalmente sani: comprendono di essere dei fortunati, dei privilegiati, poiché hanno un pasto. Guardano il visitatore con interesse. Sembra che gli chiedano: «E tu, mangi? Tu, trovi del cibo?».
Uno di questi bimbetti, ancora sparuto perché accolto da poco, tese un pugnetto colmo di riso ad una visitatrice che lo guardava con dolcezza. Un gesto indimenticabile, una carezza di Dio sul mondo ferito.

A Natale si prepara sempre in ogni Shishu Bhavan un grande albero lucente e si fa festa.
Nella casa di Calcutta i giovanissimi tra i cooperatori, tra cui gli adolescenti figli e nipoti dei primi collaboratori di madre Teresa (David, Michelle, Linda, Mark, Gaby…), lietamente addobbano l’albero e senza saperlo preparano per il loro futuro bellissimi ricordi.

C’è un solo Dio, ed è Dio per tutti; è per questo importante che ognuno appaia uguale dinnanzi a Lui. Ho sempre detto che dobbiamo aiutare un indù a diventare un indù migliore, un musulmano a diventare un musulmano migliore ed un cattolico a diventare un cattolico migliore. Crediamo che il nostro lavoro debba essere d’esempio alla gente.



SPIRITUALITÀ E CONCRETEZZA

Osserviamo madre Teresa di fronte a alcuni problemi del mondo d’oggi, problemi che ella è tesa a risolvere entro il suo raggio di azione in continuo sviluppo, sotto la guida di pensieri semplici, netti e di altissima spiritualità.
La povertà!
Madre Teresa e le sue figlie vivono in povertà per elezione, allo scopo di condividere, comprendendo così e amando di più, i livelli del Povero, soprattutto, dice la Madre, dei più poveri tra i poveri.
Poiché esse vogliono innalzare tali livelli, è chiaro che la povertà non è considerata da madre Teresa una condizione desiderabile per l’uomo. La povertà è sordida, priva le creature della loro dignità, impedisce o rende estremamente difficile l’innalzarsi del pensiero. È quindi dovere di tutti combatterla, in nome della fraternità umana che ci deriva dall’unica paternità di Dio.
La povertà, condizione esterna dell’uomo considerata come un minor possesso di beni terreni, c’è sempre stata, come c’è sempre stata negli uomini una maggiore o minore luce di intelligenza, una diversa resistenza fisica, bellezza e bruttezza variamente dosate: differenze di base queste ultime, indipendenti da noi.
Una parola di Cristo dice: «I poveri li avrete sempre con voi!» Egli, che pure predilige i poveri e li soccorre, Egli che scelse i suoi dodici fra la gente comune legata ai problemi del pane quotidiano, e con loro visse povero, non parla di livellamenti materiali. Quando afferma: «Beati i poveri in spirito perché di loro è il regno dei cieli», ci è chiaro che Gesù intende parlare di coloro che, distaccati nel loro intimo dalle ricchezze materiali che essi non pongono a centro e scopo dell’esistenza, possono essere poveri qualunque sia il loro raggiungimento sociale, come lo sono nel fasto vaticano quei pontefici che meglio rappresentano Cristo.
Anche la parabola dei talenti sottolinea le differenze fra gli uomini i quali sono variamente dotati, e l’apparente ingiustizia si scioglie poi nell’uguale lode a coloro che hanno trafficato i propri talenti e sono stati quindi servi buoni, servi fedeli, siano stati pochi o molti i talenti ricevuti.
Questa accettazione di Cristo delle differenze fra gli uomini ci induce forse a rimanere inerti di fronte a coloro che hanno meno?
Tutt’altro! Sarebbe come travisare l’essenza dell’insegnamento di Cristo che, se si dovesse riassumere in una parola sola, sarebbe tutto racchiuso nella parola: Carità!, equivalenza di Amore.
Nel dicembre 1972, nel ricevere il premio Nehru per la comprensione internazionale, madre Teresa disse tra l’altro: «Nell’ora della morte, quando verremo faccia a faccia con Dio, noi saremo giudicati sull’amore: quanto abbiamo amato, non dunque quanto abbiamo fatto, ma quanto amore abbiamo posto nel nostro agire».
Quanto ai dislivelli, forse, nel piano misterioso dell’economia divina, essi ci sono proprio perché fra gli uomini si attui, come nelle leggi fisiche regolatrici dell’universo, una continua corrente vivificante di scambio e compartecipazione, un «poter» dare a chi non ha. Ma quando la povertà, condizione spesso desiderabile, amata da S. Francesco che si sentì libero quando fu povero, scende a livelli di miseria, cioè a sotto livelli umani che non possono più per la loro inconsistenza fare da base ad alcun traffico di talenti, essa va combattuta con ogni nostra forza e madre Teresa, sorretta e illuminata dall’Amore, la combatte infatti, sia nella sua realtà più appariscente di fame e mancanza di un rifugio coperto posseduto anche dagli animali, sia nelle sua forme degenerative di ignoranza, di malattia, di abbandono.
Gli sforzi di madre Teresa, anche se saranno ingigantiti nel mondo dalla forza del suo esempio, non cancelleranno la povertà dalla faccia della terra ed ella, concreta nella folgorante spiritualità delle sue scelte, sa che il suo «fare» è solo una goccia risanatrice in un oceano di dolore. Ma certamente, se si moltiplicherà lo sforzo da parte di tutti nel seguire i suoi passi e quelli dei molti ispirati agli stessi principi, la povertà risalirà la china della sua degenerazione in miseria, una degenerazione più purulenta della lebbra atroce. Il regno di Dio, regno di fratellanza e di pace, apparirà molto più vicino allo sguardo dei puri e diverrà credibile per coloro cui la vista si appanna a causa dell’insufficiente carità del mondo cristiano, che pure la innalza a vessillo.
Madre Teresa insiste sulla gioia che deve irradiare dalle missionarie della Carità sui Poveri che assistono, e che sono i preziosi mezzi attraverso cui esse esprimono l’amore verso Dio.
La nostra gioia, dice, è la gioia di Cristo e se noi non l’abbiamo e non la comunichiamo «i Poveri non potranno mai rialzarsi al richiamo che noi vogliamo rendere udibile, il richiamo di venire più vicini a Dio».
Così, al di là del pane quotidiano che è nostro dovere dare a chi ne è privo, madre Teresa vede qual è il bisogno più lancinante di ogni essere umano: il bisogno di Dio, si esprima esso attraverso una o l’altra delle religioni catalogate.
L’opera di madre Teresa che va incontro alle necessità primordiali e irrinunciabili dell’uomo, è basata dunque su un elemento spirituale: la fede, e a donare la fede tende come scopo supremo. In questo arco di partenza e di arrivo stanno le opere, ed ogni opera deve rispecchiare Dio, deve essere amore di Dio in movimento.
La fede e le opere «vanno insieme», dice la Madre, conscia per sé e le sue figlie del pericolo di divenire soltanto delle benemerite assistenti sociali, e si completano l’un l’altra.
Nell’osservare madre Teresa, trascinante figura dei nostri tempi, non lasciamoci dunque ingannare di quanto vi è nella sua vita di più appariscente: le sue opere; e nel suo atteggiamento più visibile: la concretezza. In lei fede e amore attivo vanno insieme, e anche se questo studio stesso è costellato di valutazioni come: realistico, concreto, fattivo, è sempre visibile in madre Teresa la sua equidistanza fra i due poli del credere e del fare, valori complementari, convergenti nella sintesi di una mirabile fusione.
È la fede che determina in lei l’accensione della carità e ne rende la fiamma altissima e rovente. È la fede che fa riconoscere la dignità, l’individualità, l’infinito valore di ogni vita umana.
Ed è il suo senso pratico, la sua «umanità» che la rendono così sensibile e industriosa da suggerire a lei e alle sue figlie, oltre alle sue più conosciute realizzazioni, occasionali iniziative geniali, generose, vivificanti: festose riunioni di lebbrosi con pranzi in comune e recita finale di un dramma o una commedia a opera degli stessi pazienti; sostanziosi aiuti in denaro a famiglie che attraversano periodi di emergenza; aiuti a giovani coppie che non riescono a metter su casa nemmeno con esigenze minime; il costo di trasfusioni di sangue a chi non può permettersele; spese funerarie in casi particolari senza distinzione tra indù, parsi, ebrei, cristiani; allevamenti di polli dovunque si possano occupare e nutrire gruppi di inoperosi e denutriti; laboratori per fabbricare reti in zone di pescatori il cui ricavato costituisce pian piano la dote per le giovani operaie;corsi serali di sartoria per i frequentatori di ricoveri notturni che desiderino sollevarsi da misere condizioni…, e ci fermiamo su questa virgola a indicare che la fantasia, il cuore di madre Teresa, il suo buon senso sono inesauribili sorgenti di bene.

Osserviamo ora l’atteggiamento della Madre verso un altro tra i problemi di oggi.
Una delle cause della povertà in India, gigantesco problema numero uno, è indubbiamente la sovrappopolazione.
È questo un problema da considerarsi anche nella prospettiva dl prossimo futuro, perché ogni anno tredici milioni di persone, tanto quanto l’intera popolazione dell’Australia, vengono ad aggiungersi ai cinquecento milioni degli indiani di oggi (1980).
I sociologi sostengono in genere l’improrogabile necessità in India di una limitazione delle nascite.
Fu opinione di Indira Gandhi, quando era al potere, che ogni coppia in India non dovesse permettersi più di tre figli.
Ma il controllo delle nascite con l’uso indiscriminato della pillola anticoncezionale non è per madre Teresa una risposta valida a questo problema, da lei tutt’altro che sottovalutato, come non lo è la sterilizzazione di parte della popolazione e dei lebbrosi in particolare o, peggio ancora, l’aborto legalizzato.
Affiancata al pensiero-guida della sua Chiesa, cui si affida con gioia e fiducia, liberamente riconoscendola Mater et Magistra, madre Teresa si batte per ciò che è stata definita la paternità responsabile: ogni volta che lei e le sue figlie ne hanno l’occasione, e in particolare in un suo centro socio-educativo, insegna il metodo Ogino-Knauss, non lesivo della dignità del procreare e induce a visite mediche illuminanti.
Il 19 e 20 ottobre 1973 Madre Teresa sostò a Milano, ospite del Centro Missionario Pime. Parlò a 2000 giovani e a 1000 Suore e prese parte con 8000 persone alla marcia «Sam Pan», che intese essere un gesto di solidarietà per il Terzo Mondo.
Durante il discorso alle Suore, la Madre, sul tema dell’esplosione demografica, disse: «Da 5 anni stiamo occupandoci della pianificazione familiare secondo l’insegnamento del Santo Padre nell’enciclica “Humanae vitae”. La gente è venuta a ringraziarmi per aver impegnato le Suore in questo lavoro, dato che finora le Suore non si sono mai interessate di questo problema. Mi hanno detto: “Voi avete il voto di castità e per questo potete insegnare meglio di tutti l’autocontrollo. Ora siamo più felici e abbiamo più salute e unione nelle nostre famiglie. Ci comprendiamo di più e i bambini li possiamo avere quando vogliamo”. Pregate perché altre congregazioni collaborino con noi, qui in India dove altri mezzi sono stati usati. Se il governo accetta quello che stiamo facendo, possiamo compiere un lavoro meraviglioso in servizio del paese».

Indubbiamente è questa una strada lunga, ma che importa quando nel percorrerla non vi è offesa né a Dio né a sé stessi, e sia rispettata ogni singola esistenza, anche la più umile e la più piccola, poiché ognuna di esse ha il suo posto nella storia della Salvezza?
L’essere in molti su questa terra non turba madre Teresa, la quale si stupisce che turbamento vi sia in molti di noi. Si può forse lamentarsi che un prato sia troppo folto di viole e margherite o che nel cielo brillino troppe stelle? E non siamo noi i primogeniti della creazione, molto più dei fiori e delle stelle?
Racconta M. Muggeridge nel suo libro Something beautiful for God (dal quale è tratto il paragone bimbi-fiori-stelle) di aver visto un giorno madre Teresa mostrare con lieto orgoglio una gracilissima bimba di pochi giorni. La teneva alta fra le sue mani, così minuta che il suo esistere sembrava un miracolo. «Guardate», diceva trionfante la Madre, «c’è vita in lei!».
Si cerchino dunque altrove le soluzioni al problema della sovrappopolazione, accettando solo quel controllo responsabile che tiene conto anche della vita di ogni madre, vita sacra e con propri diritti. Questo controllo responsabile farà diminuire senza violenza la crescita sproporzionata delle nascite, e sarà anche in accordo con grandissima parte della gens indiana, spiritualmente lontana da ogni forma di violenza, perfino contro animali nocivi, per radicate convinzioni sulla trasmigrazione delle anime e sui molti cicli vitali di ciascuno.
Si può essere certi che Gandhi, il venerato Mahatma pura voce dell’India, alzerebbe la sua protesta in difesa delle vite innocenti sacrificate dalla legge che legalizza l’aborto senza motivi medici e col solo scopo di limitare le nascite. La violenza contro chi non può difendersi riempirebbe di orrore colui che fu contro qualunque violenza, anche contro un nemico armato, anche in caso di legittima difesa.
Intanto, pensa madre Teresa, si cerchi di fronteggiare gli enormi problemi della sovrappopolazione con le risorse dello sviluppo tecnologico; con lo sfruttamento delle immense riserve ancora intatte in molte parti del mondo; con un’equilibrata distribuzione dei beni fra i popoli che consumano miliardi in cure dimagranti o di mali dipendenti da supernutrizione e i popoli che sopportano spaventosi livelli di sottoalimentazione; con l’esplorazione e forse colonizzazione di nuovi mondi.
Quanto alla proposta di sterilizzare i lebbrosi, proposta che certamente trova con facilità molti consensi, madre Teresa vi si oppone: invitata a prender parte a una riunione governativa a Calcutta nella quale si sarebbe discusso il problema dell’eventuale sterilizzazione dei lebbrosi, espose le sue opinioni in proposito dal punto di vista unicamente umano, e fu così convincente che il progetto fu abbandonato.
È vero ella dice, che senza speciali accorgimenti i lebbrosi generalmente infettano i figli dopo la loro nascita, pur generandoli sani. Ebbene, si abbiano dunque questi accorgimenti, e non si privi il lebbroso, un ammalato ora tutt’altro che incurabile, della gioia di essere padre, unica sua ricchezza, sua speranza, suo orgoglio. Basta infatti osservare una felice famiglia di Shanti Nagar, nella quale sani e malati vivono insieme una vita normale, per capire senza sforzo che il problema della probabile trasmissione del contagio si può affrontare e vincere in tutt’altro modo di quello brutale e disumano della sterilizzazione.
«I malati che noi incontriamo per la strada – dice madre Teresa – sono Cristo stesso nascosto sotto un doloroso aspetto, Cristo lebbroso, Cristo nudo, Cristo abbandonato. Noi abbiamo scelto di aiutare Cristo, non di distruggere la molteplicità della sua Sua presenza!».
Una volta di più fede e carità fanno risplendere la verità della parola di Ireneo: «Gloria di Dio, è l’uomo che vive!».

Su un altro delicato punto, quello delle controversie attuali nella Chiesa, il giudizio di madre Teresa è limpido e sicuro: «Passeranno…», dice con sereno sorriso, «e la Chiesa ne uscirà rinvigorita, per continuare a sviluppare sempre meglio il suo divino mandato».
Lo splendore di simili certezze non può in madre Teresa essere offuscato dalle controversie. Come sassolini sul suo cammino, che conosce ben altre asprezze, esse rimangono per lei quasi inavvertite e messe da parte con semplicità.
In questa lettera a M. Muggeridge La Madre scrive testualmente:
«Ciò che succede oggi alla superficie della Chiesa passerà. Per Cristo la Chiesa è la stessa oggi, ieri, domani. Anche gli apostoli passarono attraverso sentimenti di timore e sfiducia, di debolezza e di slealtà, e tuttavia Cristo non li rimproverò. Solo… “Uomini di poca fede, perché avete dubitato?”».
Fu chiesto a madre Teresa:
«Che ne pensa, Madre, della gerarchia e dell’autorità religiosa?».
Il tono della domanda era acceso, tutto intriso di quella particolare indignazione che, a suo modo, è un amore capovolto e fa parte di certa mentalità corrente, generosa di fondo, ma ingiustamente e pericolosamente aggressiva.
Madre Teresa sorrise e rimase alcuni attimi pensierosa: certamente pesava ogni implicazione della domanda che le era stata rivolta. Poi disse semplice e breve:
«Ciò è la parte umana della Chiesa». E anche nella sua risposta vi erano implicazioni importanti.
Chi chiedeva si fece più audace.
«Sì, ma la gerarchia si allontana in quanto tale dal Vangelo e non lo vive».
La pausa di madre Teresa fu più lunga e sofferta. Poi disse:
«Chi pensa così ha scarsa fede nel suo cuore…».

I limpidi giudizi di madre Teresa, i suoi atteggiamenti netti, sicuri sgorgano da una solida, compatta fusione del suo senso pratico col senso del divino, componenti essenziali in così giusta misura nella sua personalità da caratterizzarla fortemente.
Una donna infatti che ha tanta umanità e allegro senso pratico da chiamare una sua istituzione per l’assistenza e il recupero degli alcolizzati «il club dei beoni» e che ha insieme un tale senso del divino da vedere in ogni uomo una vivente cattedrale dell’Eterno, una tale donna si muove evidentemente in un arco amplissimo, tra due poli solo in apparenza opposti, in realtà così vicini da immedesimarsi.
Ella cura i lebbrosi con i sufloni, ma sulle sue ambulanze conosciutissime a Calcutta, dove i lebbrosi sono riuniti in quartieri particolari, c’è scritto: «Tocca i lebbrosi con la tua pietà!».
È la prima medicina agognata da chi è ulcerato nell’anima più che nella carne, per l’abbandono in cui è lasciato e il ribrezzo che suscita. Così, lungo il cammino di madre Teresa è amando che la fede, la sua fede, si diffonde da sé come e più di un contagio, poiché l’amore di cui ella si nutre è di per se stesso più infettivo di un virus.
La congregazione delle missionarie della Carità non si propone infatti di acquistare proseliti ed è noto in India che la maggior parte dei suoi validissimi, generosi cooperatori è composta di non cristiani, i quali riconoscono che l’amore ispira le opere di madre Teresa, un amore universale al quale ogni nobile spirito può associarsi nel servizio del Povero. Ma l’evangelizzazione indiretta delle suore durante il loro incessante prodigarsi risulta efficacissima. Rispettose di ogni credenza e splendide di comprensione umana, esse giungono a far trasportare i morenti indù senza speranza di recupero fin sulle rive del Gange, quando ciò è possibile per la poca distanza come a Varanasi, affinché per essi si trasformi in felicità l’ora solenne e drammatica della morte.
Le figlie di madre Teresa conoscono in che cosa consista il valore di un uomo e proprio per la loro alta spiritualità, fusa con una calda, umanissima solidarietà fraterna, sono liete quando la loro dedizione, che è di ininterrotta testimonianza evangelica, rende un indù più indù, un cristiano più cristiano, un maomettano più maomettano, più vicini tutti all’unico Dio.
In madre Teresa e in chi la segue l’amore per Iddio è la sorgente inesauribile dell’amore fattivo per gli uomini, che in essi suscita a sua volta amore e fede in Dio, in uno scambio continuo e fecondissimo, in cui alla fede e alla carità così splendidamente fuse si aggiunge una luce di speranza nuova per gli uomini tutti.