martedì 19 aprile 2011

Tempo di perdonare

Durante il genocidio in Ruanda Charles Mugabanake apparteneva agli Hutu-Assassini, che sistematicamente ammazzavano i Tutzi. Tra le sue vittime: la famiglia dei suoi vicini, del pastore Stephan Gahigi. I due si sono rincontrati in prigione. Ne è scaturìta una storia insolita.

Si tratta di un articolo del Frankfurter Allgemeine Zeitung - il giornale tedesco più autorevole - comparso sul web a Natale, ma che è decisamente in tema anche con la Pasqua, per indurci a riflettere.
Parla dello sconquasso portato nella società africana dall'odio etnico e delle difficoltà odierne per rimarginare le ferite. Solo quando il protagonista è riuscito a liberarsi dal suo ruolo di vittima, è riuscito a percepire nuovamente i sentimenti dell'altro, giungendo a stabilire dei legami che vanno addirittura al di là dei vincoli di sangue.

Il loro desiderio è di sedersi all’ombra dell’Albero di fuoco. I rami sono carichi di fiori rossi. Il sole mattutino è ancora basso, le mura della chiesa proiettano lunghe ombre e un vento freddo soffia dalle colline. La camicia di Stephan è a maniche lunghe, Charles ha indosso una maglietta, tiene le braccia incrociate sul davanti. Le fronde scosse dal vento disperdono i petali rossi. Cadono sulla testa di Charles, e Stephan li allontana con una carezza. Charles sorride. Stephan altrettanto.

Quel giorno, quando si erano rincontrati, avevano pianto assai. Tutti e due assieme. Prima che si rincontrassero, avevano pianto da soli. Ciascuno per conto suo. Uno nella sua chiesa, che ormai non rappresentava più il suo focolare domestico. L’altro in una lurida e minuscola cella. Allora li univa solamente un odio reciproco. Quello di uno nei confronti dell’altro. Stephan dice di Charles, che lui e i suoi simili gli hanno infranto il cuore. Charles dice di Stephan, che lui aveva dato la caccia a lui e ai suoi simili come animali.
Sono legati l’uno all’altro. Inizialmente attraverso la morte. Poi mediante la vita.


Il ricordo è fresco
Ogni anno in Ruanda si ricorda l’anniversario del genocidio. Anche quest’anno, per la sedicesima volta, è riaffiorato nuovamente il dolore delle vittime, mentre i colpevoli si sono rintanati nelle loro case, i fiori hanno ricoperto le tombe. Come ogni anno durante le commemorazioni in aprile delle persone sono state uccise e come ogni anno i sopravvissuti hanno detto: il ricordo è ancora fresco. Il genocidio vive con noi. Ntidigasubire - „Mai più!“ – sta inscritto sui mausolei, sta inscritto sulle tombe.
Stephan racconta: sono cresciuto con molte ferite interiori. Ferite che mi sono state inferte perché io sono un Tutzi. Eppure vogliamo smettere di parlare di cose passate. Vogliamo perdonare tutti quelli che si inchinano in tutta umiltà di fronte alle proprie vittime. Chi si inchina di fronte alle proprie vittime si inchina di fronte a Dio. Chi si inchina di fronte a Dio viene perdonato.


Un milione di cadaveri
130 membri della sua famiglia giacciono nelle tombe. Un colpo inferto col Panga, il Machete, di quelli che si usano per i lavori nei campi e con i quali il governo di allora del Ruanda aveva rifornito gli Hutu, in modo che si scatenassero e sterminassero i Tutzi, mutilando delle braccia le loro figlie. È solo per un caso fortuito che lui, sua moglie e i tre figli ce la fecero a fuggire in Burundi, un caso che gli salvò la vita. Imana Gushimira. oh Dio nostro, ti ringraziamo. Ci hai risparmiati.
Stephan è un Tutzi ruandese. Charles un Hutu. Oggi è vietato per legge compiere tale discriminazione. 16 anni dopo il genocidio del 1994, che durò cento giorni e al cui termine si stima furono abbandonati sulle strade, sulle colline e nelle valli del Ruanda un milione di cadaveri, sono nuovamente tutti semplicemente Ruandesi. Il pronunciarsi diversamente viene sanzionato, siccome contiene in sé il germe della divisione e della separazione. Ma non è sufficiente. Sono stati gli Hutu, a uccidere i Tutzi. Non si dimentica che un intero popolo fu sterminato, legge o non legge.
Stephan racconta: smarrimmo la nostra umanità. Solo Dio può restituircela.


Tutti sanno cosa hanno fatto gli altri
Nyamata si trova a mezz’ora di viaggio da Kigali, la capitale del Ruanda. Il viaggio comincia dal centro della città con i suoi nuovi palazzi, con le facciate a specchio e i cortili: il benessere e la modernità potrebbero sanare le ferite. Si viaggia attraverso il quartiere di Kichiciro, con le sue capanne in semplici mattoni di argilla e i tetti in lamiera. Le capanne sono strette una vicina all’altra, tutti conoscono tutti, ciascuno sa cosa hanno fatto gli altri in passato. Già lì resta poco della speranza. Tra le capanne, al loro interno, regnano povertà e amarezza.
Si scavalca poi il fiume Akagera, sotto i cui ponti a quel tempo si accatastavano i cadaveri l’uno sull’altro, finché i resti si putrefacevano e si dissolvevano indistinguibili nell’acqua. Su entrambe le sponde si stendono le paludi di Bugesera, lì crescono papiro e canne. Non appena superati i ponti si riprende a salire, dall’alto si possono osservare bene le sponde; salendo sopra si sarebbe in grado di distinguere perfettamente se qualcuno tentasse di nascondersi nelle paludi. Lo si sarebbe potuto raggiungere rapidamente, si sarebbe potuto sollevare il lungo coltello, amputargli le braccia e decapitarlo. Proprio come allora, quando gli assassini setacciavano le paludi in cerca di quelli che si nascondevano. Di quelli che si immergevano nel fango fino a ricoprirsi le spalle, divenuti per metà anfibi nel passare di pochi giorni, affamati e assetati. Qualcuno poi riemergeva, siccome non ce la faceva più, e preferiva andare incontro ai suoi assassini.


Come se i morti gli stessero alle calcagna
Charles racconta: Sin dall’infanzia ero abituato alle uccisioni, mio padre era un cacciatore. Le uccisioni non mi facevano impressione. Mio padre diceva, che nel 1959 ci siamo liberati dall’oppressione dei Tutzi, eppure loro cercano nuovamente di riprendersi il potere. Diceva che loro erano i nostri nemici.
Stephan racconta: la famiglia di Charles era nostra vicina di casa. Gli avevamo regalato una mucca. Regalare una mucca è un segno di profonda amicizia. Una mucca è preziosa.
In che modo raccontano questi due la loro storia? Ciascuno per conto proprio. Ciascuno la propria storia. Non si guardano l’un l’altro. Le mani di Stephan sono sempre in movimento, le parole pronunciate rapidamente, quasi di fretta, le pupille roteano allo stesso modo. Siede sulla sedia come fosse un trampolino. Come se i morti gli fossero alle calcagna.


Dopo che tutti furono dilaniati, lui è andato alla ricerca di Stephan
Charles con le spalle incurvate e gli occhi rivolti verso il pavimento, alle dita dei piedi sporche di fango. Soltanto le mani di tanto in tanto danno segno di vita. Quando una racconta i particolari dell’uccisione e l’altra della solitudine della sopravvivenza.
I genitori di Stephan, le sorelle, le zie, lo zio, i nipoti, le nipoti non fecero a tempo a raggiungere tempestivamente il confine con il Burundi. Gli sbarramenti stradali, che erano stati predisposti in tutto il paese, divennero la loro disgrazia. Li riportarono indietro a Nyamata, e lì li aspettavano già Charles e gli altri, in attesa di vittime. Racconta lui: Volevo ammazzare. Avrei continuato a uccidere, se ce ne avessero portati altri.
La mucca simbolo di amicizia - dimenticata. Con il panga in mano, le braccia di Charles sono possenti e possono far affondare il coltello profondo nelle carni. Dopo che tutti quanti furono squartati, si mise alla ricerca di Stephan, giacché non era tra quelli ammazzati: non doveva sfuggire. Siccome non lo trovò, distrusse la sua casa, ammazzo le sue mucche. Racconta: Non ho provato alcunché. Nessun rimorso. Li ho uccisi, perché mi si ripeteva che altrimenti sarebbero stati i Tutzi ad uccidermi.


Il cuore pieno di dolore e di rabbia
Bapfuye Buhagazi – morti viventi vengono denominati coloro che non furono uccisi, ma che allo stesso tempo non tornarono in vita. Le donne stuprate, che oggi muoiono di Aids. I sopravvissuti, che non hanno più famiglia. Coloro che sopravvivono con ferite gravi, menomati con le braccia o le gambe amputate, talvolta tutte quante. 16 anni non sono abbastanza per risanare le piaghe.
Stephan racconta: Quando tornai a Nyamata, il mio cuore era pieno di dolore e di rabbia. Dissi, Dio perdonami, ma non posso più testimoniare la tua Parola. Per lungo tempo dentro di me regnò il silenzio. La mia fede era distrutta. La mia vita era distrutta. Tuttavia anche nel mio mutismo interiore non potei dimenticare il salmo 51.
Crea in me un cuore puro, o Dio, rinnova in me uno spirito saldo. Non respingermi dalla Tua presenza e non privarmi del Tuo Santo Spirito. Rendimi la gioia di essere salvato, e il tuo spirito generoso mi sostenga.


I figli degli uccisori compagni di banco dei figli dei sopravvissuti
Dal 2003 esiste in Ruanda una commissione nazionale di riconciliazione, che funge da intermediario tra carnefici e vittime. I carnefici, che domandano perdono, le vittime, che dovrebbero concederlo. 860 mila persone dal 1994 sono state giudicate per coinvolgimento nell’eccidio. Chi confessa, chi rivela dove giacciono i resti di cadaveri, in modo che possano esser riconsegnati ai parenti, ottiene un alleggerimento della pena.
Oggi la maggior parte dei processi si è conclusa, circa 140 mila colpevoli sono già stati liberati dagli arresti. Vivono porta a porta con le loro vittime di un tempo. Alcuni ai quali hanno menomato i figli, violentato le mogli, massacrato i mariti. I villaggi sono piccoli, lo spazio è ridotto. Si spartisce tutto: le strade, la chiesa, il mercato, i locali, il terreno coltivabile. I figli degli uccisori si ritrovano compagni di banco dei figli dei sopravvissuti. Tutte privazioni che rendono insensibili. L’invidia, il risentimento, la gelosia a ogni costo, quando uno possiede più dell’altro. Quanto più, quando uno possiede ancora la sua famiglia, la salute, la sua moralità. Mentre l’altro ha perso tutto.


In mezzo tra i colpevoli
Charles fu imprigionato nel 1995. Dormivano in 400 in una stanza. 400, che si guardavano in faccia e dicevano: Non siamo colpevoli. Cosa abbiamo fatto di diverso da ciò che ci è stato insegnato? Ammazzate i Tutzi, i Tutzi sono i vostri nemici. Ammazzateli per primi, altrimenti ci uccideranno.
Charles racconta: Quando qualcuno parlava di colpevolezza, io lo minacciavo. Dicevo, Quando usciremo di qui, porteremo tutto a termine. L’odio mi divorava. Quando ci fu concesso di lavorare fuori dalla prigione, ho detto agli altri: Basta che non lavoriate in un campo per i Tutzi.
Stephan racconta: Dovetti cominciare là, dove mi risultava più penoso. In mezzo tra i colpevoli. Divenni pastore del carcere, molto prima che in questo paese si osasse anche solo portare sulla bocca la parola riconciliazione.


Il rimorso per la colpa
Davide, racconta Stephan, canta nel suo salmo: Voglio insegnare le tue vie agli erranti, affinché i peccatori tornino tra le tue braccia. – Andai nelle prigioni e predicai il perdono reciproco. Sostenevo che dovessimo aprire i nostri cuori. E intanto mi guarivo. Quanto più comprendevo che anche Dio aveva perdonato quelli che io odiavo, tanto più il mio odio si annichiliva. Signore, sii misericordioso nei miei confronti nella tua bontà, e allontana da te il ricordo dei miei peccati nella tua immensa magnanimità.
Charles racconta: Mi ero terribilmente spaventato, quando vidi Stephan in prigione. Quando veniva, io mi nascondevo. Non potevo sopportare di vederlo. Molti lo conoscevano, molti sapevano cosa gli avevamo fatto. Lo temevano tutti. Non potevano credere che venisse da noi. La vita in prigione è monotona e io avrei desiderato andare in chiesa. Mi sedevo sull’ultima panca in fondo col capo reclinato. Senza volerlo, crebbe in me il rimorso per la colpa. La sera mi rigiravo nel letto e mi domandavo se Dio avrebbe potuto perdonare ciò di cui mi ero reso responsabile. Un giorno andai da Stephan. Avevo paura di incontrarlo. Mi prese sotto braccio. Nel 2003, allorché fui rilasciato dalla prigione, mio padre era morto. Andai da mia madre e le dissi che sarei andato a trovare Stephan. Lei mi chiese cosa volessi andare a fare da quegli uomini malvagi, colpevoli della mia detenzione in prigione? E io le dissi che sarei andato a implorare perdono da Stephan.


Riconoscimento della comune condizione uomana
Kubabarira. Tradotto letteralmente significa „patire con qualcun altro“, talvolta anche „piangere insieme“. Kubabarira è il perdono. Il riconoscimento delle pene dell’altro è allo stesso tempo il riconoscimento della comune condizione umana. Il minimo comun denominatore che può esser trovato per progredire assieme. Non considera il passato, solamente il presente.
Stephan racconta: Sono debitore di questo anche nei confronti dei miei figli: superare i preconcetti alla base della divisione etnica, per poter diventare un popolo unito. Quando Charles entrò nella mia casa, ho spalancato le mie braccia. Restava accanto alla porta, probabilmente doveva pensare che gli avremmo fatto qualcosa. Disse che Gesù ci aveva ricongiunti. Voleva implorarmi di non respingerlo più. Da allora ci incontriamo. Mangiamo assieme, andiamo a passeggiare assieme. Quando decise di sposarsi, non possedeva né denaro né una casa. Gli dissi, Non ti puoi sposare senza una casa, lascia che ti aiuti a costruirne una. Così abbiamo costruito insieme la sua casa. Gli ho detto che da quel momento lo avrei considerato un figlio mio. Lo avrei aiutato, come avrebbe fatto un padre.


Nella cripta sotto la chiesa sono accatastati gli scheletri
Non occhio per occhio, dente per dente. Nel frattempo interi insediamenti furono costruiti dai colpevoli per le vittime. Di uno come Stephan, che pur essendo una delle vittime aveva costruito una casa per uno dei colpevoli, non si hanno altre evidenze altrove in Ruanda.
Charles racconta: Andai da mia madre e le dissi, questa gente, che tu sostieni siano i tuoi nemici, ha costruito una casa per me. Le chiesi dove fosse l’odio che lei mi aveva insegnato a sfuggire. Dissi, Io ho sterminato la sua famiglia e lui mi costruisce una casa. Lei tacque.
Il sole splende ormai da tempo alto sopra  Nyamata. Se ci si spostasse da sotto l’albero di fuoco, dove i due uomini stanno seduti, se si risalisse la strada polverosa, si attraversasse la strada e dall’altra parte si salisse in cima alla collina, si giungerebbe alla chiesa cattolica, nel cui giardino svolazzano delle bandierine color violetto, che rappresentano il simbolo del ricordo del genocidio. Qui vennero ammazzati in 10 mila e nella cripta sotto la chiesa sono accatastati i loro scheletri, i teschi; tra le panche delle chiesa stanno i resti dei vestiti, l’odore di morte aleggia ancora in questo luogo a sedici anni di distanza. E quando si va a Nyanza, a Bisesero, Kibuye, Ntarama, Murambi, in tutte le città dell’orrore e delle stragi di massa, si presenta sotto gli occhi il medesimo spettacolo. „Il Perdono“, sta inscritto su queste pareti di argilla, tra le quali riposano i morti, „è la Forma più elevata dell’Amore.“
Charles, sei un assassino?
Sì, sono un assassino.
Stephan, Charles è un assassino?
Lui è mio figlio.

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