“Chi è debole che anch’io non lo sia? Se è necessario vantarsi, mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza (...) perché dimori in me la potenza di Cristo. Perché quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 11, 29-30. 12, 9-10). La missione, specialmente, nel mondo arabo-musulmano, è segnata dalla debolezza. La parola può sorprendere. Non è abituale nel vocabolario missionario. La “debolezza” ha una cattiva stampa nel nostro mondo, dove la forza e la salute fisica, psicologica, intellettuale sono sinonimi di sviluppo e di successo sociale. Eppure san Paolo, nelle sue lettere, non utilizza meno di 33 volte la parola “debolezza”. La debolezza condivisa è il linguaggio di Dio divenuto uomo. Nella Bibbia il “debole” è anzitutto colui di cui ci si deve preoccupare e che bisogna rispettare. “Chi opprime il debole, offende il suo Creatore” (Pr 14, 31). Dio s’identifica con le più deboli delle sue creature. “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40). È il “linguaggio della croce”, poiché “ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1 Cor 1, 18. 25). Gesù, Dio divenuto uomo, raggiunge la nostra debolezza “naturale”, condividendola. Egli assume e trasfigura ogni umana debolezza. Se ne serve per rivelare ad ogni uomo l’opera del suo amore. Sono i “deboli” che capiscono meglio questo linguaggio! “Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Lc 10, 21). La debolezza accettata, come linguaggio del dialogo e dell’annuncio. (Christian Chessel, Dans ma faiblesse, je prends ma force).
giovedì 27 dicembre 2012
Il linguaggio della croce
“Chi è debole che anch’io non lo sia? Se è necessario vantarsi, mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza (...) perché dimori in me la potenza di Cristo. Perché quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor 11, 29-30. 12, 9-10). La missione, specialmente, nel mondo arabo-musulmano, è segnata dalla debolezza. La parola può sorprendere. Non è abituale nel vocabolario missionario. La “debolezza” ha una cattiva stampa nel nostro mondo, dove la forza e la salute fisica, psicologica, intellettuale sono sinonimi di sviluppo e di successo sociale. Eppure san Paolo, nelle sue lettere, non utilizza meno di 33 volte la parola “debolezza”. La debolezza condivisa è il linguaggio di Dio divenuto uomo. Nella Bibbia il “debole” è anzitutto colui di cui ci si deve preoccupare e che bisogna rispettare. “Chi opprime il debole, offende il suo Creatore” (Pr 14, 31). Dio s’identifica con le più deboli delle sue creature. “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40). È il “linguaggio della croce”, poiché “ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1 Cor 1, 18. 25). Gesù, Dio divenuto uomo, raggiunge la nostra debolezza “naturale”, condividendola. Egli assume e trasfigura ogni umana debolezza. Se ne serve per rivelare ad ogni uomo l’opera del suo amore. Sono i “deboli” che capiscono meglio questo linguaggio! “Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Lc 10, 21). La debolezza accettata, come linguaggio del dialogo e dell’annuncio. (Christian Chessel, Dans ma faiblesse, je prends ma force).
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento