Nei giorni scorsi, oltre ad assistere agli attentati in Nigeria ai danni dei fedeli Cristiani, si è fatta memoria del martirio in Algeria di quattro Padri Bianchi: Charles Deckers, Alain Dieulangard, Jean Chevillard, Christian Chessel. Per capire la ragione della presenza della Chiesa in regioni tanto inospitali e difficili, riportiamo la traduzione di un articolo di Etienne Renaud dal titolo: “Il significato della presenza dei Padri Bianchi nel Maghreb e in situazioni di pericolo”.
Il tema originale suggeritomi era: 'Perché noi Padri Bianchi rimaniamo in Algeria?' Penso che, anziché limitarsi alla riflessione sulla domanda diretta se rimanere o andarsene, potrei allargare un po’ il concetto: è utile ricordarsi che - sfortunatamente - non soltanto in Algeria i Padri Bianchi vivono in estrema insicurezza. È stato precedentemente il caso di Beirut, dell’Uganda negli anni ‘80 e nel 1994 in Ruanda, dove due nostri confratelli sono stati uccisi. Le ripercussioni del conflitto ruandese continuano a risentirsi nella diffusa instabilità della regione dei Grandi Laghi, dove i nostri confratelli, la Chiesa e le persone in generale sono obbligate a vivere in un clima di pericolo che mette a dura prova i nervi di ciascuno.
Sebbene la nostra maggior preoccupazione sia l’Algeria, contemporaneamente
consideriamo sempre le altre situazioni di rischio. Vorrei anche porre la
nostra apprensione per l’Algeria nel contesto più vasto della nostra presenza nel
Maghreb musulmano, la regione in cui la nostra Società si è formata e che per
noi rimarrà sempre la terra di predilezione.
Si potrebbe obbiettare che ci sia qualcosa di vagamente
improprio se qualcuno, vivendo tranquillamente a Roma, fornisca opinioni su
situazioni di pericolo in terre distanti; è perciò che ho tentato per quanto
possibile di ascoltare quanti son stati direttamente coinvolti, specialmente
quanti hanno dato la loro vita per l’Algeria.
Nessuna soluzione pronta
Il 20 gennaio 1995 a meno di due mesi dall’uccisione di due
nostri confratelli, il Capitolo Generale ha indirizzato il seguente messaggio a
tutti i Padri Bianchi presenti in Algeria: 'Siamo profondamente commossi dal
coraggio dimostrato nella vostra risposta a questa drammatica situazione…
Continuate come uomini liberi a perseguire la strada dell’amicizia e
solidarietà. Di fronte a tutte le minacce, siete naturalmente dibattuti tra il
desiderio di rimanere con quelli che vi hanno accolto come fratelli e ciò che
sembra la decisione 'più ragionevole' di partire… Attraverso di voi rimaniamo
ancora presenti in Algeria. Dopo molti istanti di preghiera e riflessione il
Capitolo Generale conferma la vostra scelta. Contemporaneamente che ognuno si
senta libero di decidere personalmente per sé stesso.' Si deve notare che tutti
sono partecipi della lettura della situazione e che questo rinforza la coesione
del gruppo, non solo tra i Padri Bianchi, ma anche a livello di Chiesa locale,
che in tali circostanze si ri-forma attorno i propri pastori.
Non c’è assolutamente la ricerca del martirio. Come un abate
cistercense rimarcava: “L’ordine non ha bisogno di martiri, ma di monaci.”
Ci sono istanti in cui le circostanze sembrano cogliere le
decisioni per noi, obbligandoci a mutamenti e riaggregazioni.
In breve, bisogna rispondere a una situazione in continua
evoluzione, che richiede decisioni flessibili; non esistono risposte
definitive, applicabili a tutte le circostanze.
Nello spirito dell’Incarnazione
Era importante chiarificarlo fin dal principio e si possono
ora considerare le ragioni profonde che si celavano dietro la nostra volontà di
affrontare i rischi: l’ispirazione di ogni vita missionaria è l’Incarnazione di
Cristo che si è unito all’umanità anche attraverso la morte. Due settimane
prima di morire, Padre Christian de Chergé disse a un gruppo di Cristiani a
Algeri: “Dobbiamo trovare nell’Incarnazione la vera ragione per la nostra
presenza sacrificale in Algeria.”
Un tema del quale la Chiesa locale è divenuta via via più
cosciente è il concetto biblico di Patto. Il Capitolo Generale delle Sorelle
Bianche ha scritto alla Sorelle in Algeriail 4 settembre 1990: ‘Grazie per il Patto
che avete stabilito con il popolo algerino nel nome della vostra Fede in Gesù
Cristo. È un patto che, attraverso la vostra presenza, noi sottoscriviamo.’
Quando i monaci di Tibhirine decisero di rimanere esposti alla condizione della
regione di Medea, trovarono ulteriori ragioni per la loro decisione nel loro
voto alla stabilità, citato dall’Abate Priore dei Trappisti, Don Bernard
Oliviera. L’anno precedente, il vescovo Claverie aveva scritto nello stesso
spirito: ‘Non siamo né profeti, né fanatici, né eroi, né schiavi. Ma abbiamo
stabilito con le persone in Algeria delle relazioni che neppure la morte può
dissolvere. In ciò non siamo altro che discepoli di Cristo.’
Questo patto non conosce limiti ed è gratuito. Riascoltiamo
il Vescovo Claverie: “Siamo come persone sedute tristi e impotenti al capezzale
di un malato, incapaci di far nient’altro che reggere la mano e umidificare la
fronte. Noi prestiamo il nostro tempo, durante gli ultimi istanti di vita,
semplicemente per essere presenti, con il solo scopo di dire: la festa è finita,
ma io rimango con te. Voglio rimanere presente durante la tua sofferenza. Non
vi è utilità, potresti dire, ma esso è un dono di puro amore. È la prova che la
Chiesa non è qui per cercare un beneficio.”
Al centro di tutto c’è Cristo, indifeso di fronte alla
violenza scatenata contro di lui: “Nella sua carne ha ucciso l’odio.” Sulla
debolezza dell’apostolo ha meditato Christian Chessel alcuni mesi prima della
morte: ‘Cristo non è mai stato più Salvatore che sulla Croce. È stato da questo
abisso di debolezza che egli ha salvato il mondo. Ed è per questo fine che ci
chiede di seguire questa stessa strada. È perché noi stessi siamo deboli che
possiamo vedere con occhi diversi quanti si rivolgono a noi nella loro
debolezza. Siamo in grado di accoglierli e di ascoltarli. Essi guardano a noi
per capire, e quando percepiscono di essere compresi, allora sanno di essere
amati. Questo è ciò che ci è chiesto: essere testimoni attenti e rispettosi del
dramma che si svolge attorno a noi. Perché viviamo la nostra debolezza con gli
altri, perché non abbiamo paura di essere deboli, siamo in grado di testimoniare
la fede che ci anima. Manifestiamo la forza che abita nella nostra debolezza,
la forza che fa assegnamento solo su Dio.’
La Chiesa presenta le sue credenziali
Tutti gli algerini riconoscono: “Avete scelto di stare dalla
parte degli oppressi.” È forse causa di sbalordimento che in nessun altro
periodo della storia la Chiesa ha dato così chiara testimonianza di ciò che
debba essere conferito dal messaggio cristiano in tutta la sua purezza.
Nel mezzo della prova, la Chiesa trova tutta la sua
legittimazione e la sua credibilità, come Teissier, l’Arcivescovo di Algeri, ha
proferito: “Come conseguenza, esistono molti amici algerini per i quali noi ora
costituiamo la Chiesa di Algeria.”
Nel suo testamento Padre Christian de Chergé parla di
perdono garantito in anticipo ‘all’amico dell’ultimo istante che non sapeva ciò
che stava commettendo.’ Ho avvertito in queste parole un’ispirazione che non
proveniva ‘né dalla carne, né dal sangue’, ma da molto più in alto, dall’innocenza
dell’amore che crea: il perdono è realmente al cuore della vocazione Cristiana.
Abbiamo letto in una lettera di una madre algerina all’Arcivescovo
Teissier: ‘Dopo la tragedia, dopo il sacrificio vissuto da voi e noi assieme,
dopo le lacrime e il messaggio di vita, di onore, di tolleranza, trasmesso dai
nostri fratelli monaci a voi e a noi, ho deciso di leggere a voce alta il
testamento di Christian ai miei figli. L’ho letto piena di commozione, perché
percepivo che era rivolto a noi tutti. Volevo comunicare questo messaggio dell’amore
di Dio e degli uomini. Il testamento di Christian è più che un messaggio, è un’eredità.
Il nostro grazie alla Chiesa per essere presente tra noi oggi.’
Una testimonianza in territorio Musulmano
Nella nostra Congrega si sente meno spesso: ”Cosa fate in
nord Africa? Perché sciupate il vostro tempo, quando non vi sono conversioni?
Che senso ha tutto ciò?” Il Capitolo ha fornito un gran supporto nell’aprire le
menti, per farci accorgere che il dialogocon le altre religioni è parte
integrale della missione della Chiesa. Dio non considera le barriere erette
dagli uomini tra di loro e la missione della Chiesa è quella di portar testimonianza
dell’amore universale del Padre. Come potrebbe allora la Chiesa rifiutarsi di
interessarsi a miliardi di persone per la ragione che sono Musulmani?
Desidero invitare a guardare oltre l’Islam militante che
crea i titoli sui giornali, che io chiamo ‘Islam strombazzato’. Dietro la
facciata c’è una realtà più sottile. Possiamo deplorare l’indurimento dell’Islam,
ma dobbiamo renderci conto che molti Musulmani lo deplorano alla stessa
maniera. Sviluppi interessanti stanno cominciando a aver luogo, di cui ne
vorrei menzionare alcuni.
Il lavoro della Chiesa è indirizzato soprattutto a cambiare
la consapevolezza della gente. Di fronte alla violenza ha portato la sua
testimonianza di non-violenza. Ma i mutamenti sono percepibili in molteplici
situazioni di pacificazione. In Tunisia, per esempio, la ‘cultura mediterranea’
è diventata di moda; la gente parla delle proprie origini puniche, di Sant’Agostino
come un pensatore nordafricano. Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione è stato
importante, specialmente nei circoli universitari. Si può aspettarsi voglia di rinnovamento
e apertura più tra i laureati e gli studenti delle moderne Università, che non
tra i ranghi dell’establishment tradizionale.
Rinnovata fedeltà
Vorrei concludere sulle note della fedeltà rinnovata, perché
compendia l’atteggiamento complessivo di
cui la Chiesa nel Maghreb cerca di impossessarsi. Fedeltà nei tempi di prova
non solo per l’Algeria, ma anche per il Ruanda, il Burundi e il Congo. Questa
fedeltà fa riferimento in particolare alla introspezione del Cardinal Lavigerie
a riguardo della nostra vocazione a testimoni nella terra dell’Islam.
Come a voi, ogni volta che apprendo della morte violenta di
un missionario, mi viene ricordato il mio dovere di fedeltà. La solidarietà con
i nostri fratelli ci richiama a una fedeltà giornaliera nella nostra vita, in
questo particolare angolo della vigna in cui il Signore ci invita a partecipare
alla edificazione del Regno.
Charles Deckers era nato ad Anvers (Belgio), nel 1924, in una famiglia di nove figli. Arrivato in Algeria nel 1955, durante la guerra d’Indipendenza, nel 1956 aveva creato a Tizi-Ouzou “Lemâaouna” (Aiuto reciproco), un’associazione con lo scopo di visitare i prigionieri musulmani, insegnare il berbero e l’arabo, dare una mano ai poveri. Chi l’ha conosciuto ripete di lui : “Era un santo!”.
Alain Dieulangrand, originario di St. Brieuc in Bretagna (Francia), dov’era nato nel 1919, era giunto in Algeria nel 1952. Avrebbe passato 44 anni della sua vita in Kabilia. Lo chiamavano “nonno”. Anche i musulmani ricorrevano a lui per confidargli i loro tormenti.
Jean Chevillard, nato ad Angers (Francia) nel 1925, in una famiglia di 15 figli era stato ordinato prete nel 1950. In Algeria aveva creato numerosi centri di formazione professionale. Il giorno della sua morte aveva confidato ad alcuni amici: “So che morirò assassinato”.
Christian Chessel, il più giovane del gruppo, era nato a Digne (Francia), nelle Alpi, nel 1958. Ingegnere del genio civile, fu mandato a Tizi-Ouzou nel 1993 e, l’anno successivo, fu nominato responsabile della comunità. Sognava di creare una grande biblioteca per i giovani della zona, ma non gliene hanno dato il tempo.
La mattina del 27 dicembre 1994, una banda armata irruppe nella casa dei Padri Bianchi a Tizi Ouzou, a circa 60 chilometri da Algeri. Tre o forse quattro individui, arrivati a bordo di un furgone, si introdussero nel cortile, con l’obiettivo evidente di sequestrare i religiosi. Ostentando un documento della polizia, intimarono ai padri di seguirli “per discutere un problema”. Ammalato e con difficoltà a camminare, il P. Chevillard fu trascinato fuori a forza e ucciso freddamente. Subito dopo fu la volta degli altri tre sacerdoti. I tre padri che abitavano a Tizi Ouzou e il P. Deckers, arrivato il giorno prima da Algeri, avevano scelto di restare in Algeria, malgrado il pericolo a cui erano esposti. Molto attivi nell’aiuto sociale ai bisognosi, la loro vita quotidiana era divisa tra l'impegno di sostenere moralmente e materialmente la gente e la preghiera. Centinaia di persone, per lo più di fede islamica, seguirono il giorno dopo i funerali dei quattro imrabden irumyen, i santoni francesi. Come li chiamava la loro gente.
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