lunedì 16 luglio 2012

Trasformava la povertà in ricchezza...


Era un piccolo uomo, di umili origini, bresciano dello stesso paese del Papa Paolo VI, non aveva nulla di simile ai Dinka, l’etnia principale della sua Diocesi, eppure lui si sentiva anzitutto uno di loro. Ha sempre detto a tutti che avrebbe voluto essere sotterrato in terra Dinka. Così è stato, e questo lo ha reso ancora più grande agli occhi del suo popolo. Ha scelto di stare nella chiesa che aveva ricostruito dopo le distruzioni arabe della guerra, a testimoniare la sua speciale natura.

Padre Cesare si era spento all'età di 74 anni la mattina del 16 luglio di un anno fa, a Rumbek, mentre celebrava la Messa con i suoi confratelli e coloro che amava più di ogni altra cosa, più di se stesso: il popolo sud sudanese. Con loro aveva scelto di vivere, a loro ha dedicato gli ultimi trent’anni della sua vita, per e con loro aveva pregato e lottato per insegnare la pace, per portare la pace, per guidare un popolo violentato a ritrovare la propria identità, a ricostruire un futuro di pace e autonomia dopo i lunghi anni della guerra civile.
Nato a Brescia il 9 febbraio 1937, è stato missionario comboniano, ordinato sacerdote a San Diego il 17 marzo 1962 e consacrato vescovo il 6 gennaio 1999 da Papa Giovanni Paolo II.
Fu a Cincinnati, dove operò fra i neri e i messicani che lavoravano nelle miniere. Nel 1981 arrivò in Sudan: prima nella diocesi di Tombura-Yambio, poi nell'arcidiocesi di Juba, nell'attuale Sudan del Sud.

Nel 1990 divenne amministratore apostolico della diocesi di Rumbek, di estensione pari a Lombardia e Triveneto e abitata da 3 milioni di persone. In quello stesso anno liberò 150 giovanissimi schiavi. Nel 1991 riaprì la missione di Yirol, la prima di una lunga serie: alcune di esse dovranno poi essere abbandonate sotto l'incalzare della guerra sudanese. Nel 1994 fu catturato e tenuto in ostaggio per 24 ore dai guerriglieri dello Spla (Esercito Sudanese di Liberazione Popolare), gruppo armato indipendentista in lotta contro il Governo islamico.
La presenza di mons. Mazzolari in mezzo a un popolo così vergognosamente umiliato e schiacciato nella sua dignità fu segno di straordinaria speranza di pace. I suoi viaggi in Italia provocavano ogni volta una forte risonanza negli ambiti della solidarietà sia nelle realtà laiche sia in quelle religiose. Per oltre 20 anni monsignor Mazzolari visse coraggiosamente in mezzo alla sua gente e sopportò le conseguenze della guerra e della povertà. A tutti chiedeva l'impegno a «non dimenticare perché la gente del Sud Sudan ha bisogno di una pace giusta nel rispetto dei diritti umani». Era un vescovo che drammaticamente parlava di guerra: «Il Sudan è lo stato dell'Africa più povero tra i poveri: 40 anni di guerre tribali il cui unico fine è la conquista del potere e l'acquisizione di risorse quali petrolio, acqua e oro, presenti in grandi quantità». Gli interessi globali, come specifica monsignor Mazzolari, avevano prevalso sul bene della gente: «Non esiste più rispetto dei diritti umani e la parola “libertà” è un termine sconosciuto, è stata spazzata via». Lavorare quotidianamente nella diocesi non significava solo sfamare e aiutare il popolo sudanese ad uscire da una condizione di povertà totale, ma creare i presupposti per mantenere la pace, siglata il 9 gennaio 2005.
Ha lasciato in eredità alla sua Diocesi la presenza di ben sedici congregazioni religiose differenti; nelle sue missioni si parlano le lingue più disparate, dall’inglese, al coreano, al francese, al tedesco, all’italiano, allo spagnolo, al francese, al polacco, allo slovacco, al portoghese, allo swahili, al croato, all’olandese, al danese. Non c’è una diocesi in Africa che abbia tanta parte di mondo tra i suoi collaboratori.

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