I monaci vennero deportati in massa, spinti a una lunga marcia senza meta per interminabili mesi al di là della Grande Muraglia.
Le mani legate dietro al dorso con fili di ferro, le spalle piagate dai pesanti fardelli dei miliziani, sottoposti a sevizie e torture, seminudi, divorati dai pidocchi, i monaci videro morire via via lungo il percorso i loro compagni.
In totale trentatré: quattordici preti e diciannove fratelli laici.
Come per Cristo sul Golgota, la fede venne messa a dura prova dal dolore fisico e dalla derisione.
Particolarmente doloroso fu il "martirio dell'ingratitudine", ossia il voltafaccia dei contadini, a lungo vicini alla comunità.
Soltanto una catechista, Maria Chang, negò i crimini e si schierò in loro difesa, ma venne selvaggiamente picchiata e messa in prigione.
Il perdono, offerto ai persecutori, rappresenta il sigillo di una fede saggiata come oro nel crogiuolo, persino quando essi esplodevano: "Non è più il tempo della pietà questo, ma della vendetta!".
Scrive uno dei sopravvissuti: "Il cuore era sereno e gioioso perché non eravamo colpevoli di nulla".
Aggiunse che i monaci offrivano le loro sofferenze a Dio e che perdonavano: "Stiamo per morire per Nostro Signore, leviamo in alto nuovamente i nostri cuori, in offerta di tutto il nostro essere".
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