venerdì 9 settembre 2011

L'uomo della Provvidenza


Padre Aurelio Maschio, il cui nome in India viene da molti associato a quello di Madre Teresa di Calcutta, è stato uno dei grandi benefattori di questa nobile nazione. Dal 1937 (quando assunse la direzione dell'Istituto don Bosco, che fu trasferito poi a Matunga) alla sua morte, avvenuta il 9 settembre 1996, egli non ha fatto che realizzare, con l'aiuto dei suoi benefattori, opere per i poveri: orfanotrofi, case di accoglienza, scuole professionali, ospedali, lebbrosari, parrocchie, scuole di villaggio.

Gli uomini, particolarmente i giovani, sono portati a modellare la loro vita su qualche personaggio che li ha profondamente colpiti: divi del cinema, nema, dello sport, qualche volta persino della violenza. Idoli che vengono reclamizzati in continuazione dal cinema, dalla stampa, dalla televisione e che esercitano un fascino spesso determinante sui comportamenti e sulle stesse scelte per la vita di tanti ragazzi.


Anche padre Aurelio si è ispirato, fin dagli anni della sua formazione, a un modello: San Giovanni Bosco, il Santo dei giovani, l'apostolo di audaci imprese per la promozione integrale dell'uomo, con una scelta preferenziale: i giovani poveri e abbandonati. A soli 15 anni si donava completamente a lui, chiedendo di far parte della famiglia da lui fondata e partire per le lontane missioni per realizzare il suo motto programmatico: salvare le anime.
Durante gli oltre settant'anni di ininterrotto apostolato in India (vi giunse all'età di 15 anni nel 1924, per iniziare il noviziato), ha saputo far rivivere il Santo in questo immenso paese, prima tra le tribù dei Khasi, nella parte nord-orientale, e da successivamente a Bombay, la città più industriale e più miserabile di questo immenso paese.
Come Don Bosco, senza mezzi, ma con una grande fede in Dio e nell'aiuto dell'Ausiliatrice, ha saputo creare opere grandiose: scuole, oratori, collegi, colonie, istituti di avviamento professionale e agricolo, chiese e cappelle, a servizio di un paese divenuto la sua seconda patria.
Seguendo l'esempio di don Bosco, padre Aurelio si impegnò a pubblicare libri e riviste a carattere religioso, destinati alla gioventù e al popolo. Fin dal suo arrivo a Bombay dette vita a un mensile, il «Don Bosco's Madonna», che raggiunse una tiratura di 60.000 copie, la più alta tra i periodici cattolici stampati in India


È facile, entrando in una casa, non importa se cattolica, indù, musulmana o buddista, vedere alla parete una grande immagine del Sacro Cuore, della Madonna, di Don Bosco, delle tante che fece stampare in Italia e in America.
Altra geniale iniziativa: i «foglietti catechistici», anch'essi diffusi in milioni di copie, che trattavano gli argomenti più disparati: verità della fede, insegnamenti morali, suggerimenti educativi, orientamenti vocazionali... Una catechesi spicciola, popolare, incisiva, distribuita alle porte delle chiese, inserita nei pacchi e nelle lettere spedite un po' dovunque. Molti venivano tradotti nelle diverse parlate nei diversi stati.
La stampa, diceva padre Aurelio, è un moltiplicatore automatico e giunge anche dove non potrebbe mai arrivare la voce di un predicatore. Credo di dover ascrivere ad essa gran parte degli aiuti che ho ricevuto per finanziare tante opere e realizzare tutto il bene che abbiamo potuto fare.

Don Bosco ai suoi primi missionari aveva raccomandato: «Diffondere il culto, l'amore a Maria Ausiliatrice e vedrete cosa sono i miracoli».
Fin da piccolo padre Aurelio aveva coltivato nel suo cuore una tenera devozione verso la Madre celeste. In missione, fedele al suggerimento del Padre, si adoperò in tutti i modi per propagarne la devozione, diffondendo a milioni la sua immagine, opuscoli, novene, preghiere...
Ma il suo capolavoro rimane il grande santuario che attualmente si trova al centro della città.
Volle che fosse una copia fedele di quello eretto da Don Bosco a Torino: una grande navata centrale, con in fondo il presbitero e l'altar maggiore visibile da ogni punto; sul fondo la nicchia con la statua dell'Ausiliatrice. Sotto il presbiterio rialzato, una vasta cappella, ricca di marmi e mosaici, con centinaia di reliquie di martiri e santi, come quella di Torino.
Sulla sommità della cupola, una grande statua dorata dell'Ausiliatrice, che, illuminata da potenti riflettori, guarda benedicente la grande metropoli adagiata ai suoi piedi.
Fu definita «una delle chiese più belle di tutto l'oriente», e Paolo VI, entrandovi in occasione del Congresso Eucaristico internazionale del 1964, esclamò ammirato:
- Ma qui sembra di trovarmi in una Basilica di Roma!



Come Don Bosco, padre Aurelio affermava che il santuario la Madonna se lo era costruito da sola, concedendo innumerevoli grazie e autentici miracoli, ai suoi devoti: cristiani e pagani.
- La Madonna, diceva padre Aurelio, è madre di tutti e con il suo Figlio vuole la salvezza di tutti. Quanti autentici miracoli ho visto concedere anche a pagani che vengono a pregarla con tanta fede e pietà.
Ogni giorno, ma particolarmente nelle grandi solennità, migliaia di fedeli e non pochi indù, musulmani, parsi, buddisti accorrono a invocare l'aiuto della Madre di Dio.
Nelle maggiori festività dell'anno il pur capace santuario non riesce a contenere la folla dei fedeli, per cui le sante Messe vengono celebrate nei vasti cortili, capaci di contenere 20.000 persone.
Uno degli appunti che i visitatori talvolta facevano a padre Aurelio era di aver profuso tanto denaro nella costruzione di questa chiesa, mentre accanto migliaia di famiglie vivevano in capanne miserabili o addirittura trascorrono la vita sui marciapiedi.
- Penso, rispondeva, che non si faccia mai abbastanza per onorare la Madre di Dio, come del resto hanno fatto i nostri padri che hanno innalzato in suo onore stupendi santuari.


Ma in India vi è un motivo anche più importante: la gente non avrebbe alcuna stima per una religione che confinasse Dio in una catapecchia. Pur vivendo in estrema povertà, gli indiani danno quanto hanno di più prezioso per la costruzione dei loro templi.

La gioventù povera e abbandonata è stato il movente che ha ispirato Don Bosco a consacrare la sua vita e a fondare la Congregazione salesiana perché continuasse nel mondo la missione alla quale si sentì chiamato fin da fanciullo. «Essi sono la porzione più delicata e preziosa della società, scriveva, e ho promesso a Dio di dedicare loro fin l'ultimo respiro della mia vita».
Per realizzare il progetto di Don Bosco, padre Aurelio impegnò tutte le sue energie e i grandi aiuti che la Provvidenza gli andava fornendo, con l'aiuto generoso di tanti benefattori sparsi un po' dovunque.
Ragazzi poveri e abbandonati ne esistovano in tutte le parti del mondo, ma in India, un paese allora di circa 700 milioni di abitanti, con un incremento annuo del 15%, questi rappresentavano una massa sterminata. Particolarmente pietosa era la loro situazione in una grande città come Bombay con i suoi 8 milioni di abitanti, molti dei quali costretti a vivere in ghetti miserabili, chiamati «slums», che Dominique Lapierre definì «l'anticamera dell'inferno». Baraccopoli costituite da un ammasso di capanne di bambù coperte di paglia, senza acqua, luce, servizi igienici, dove migliaia di persone vivono in tragica, bestiale promiscuità. È facile comprendere come migliaia di ragazzi orfani o abbandonati dai genitori, fossero costretti a vivere sui marciapiedi della città, mendicando un tozzo di pane.
Per loro padre Aurelio aprì scuole di ogni grado, orfanotrofi, corsi di avviamento al lavoro, fornendo loro vitto, vestiario, libri e docenti qualificati, per strapparli a una vita grama, senza speranza, aprendo a migliaia di essi un avvenire sicuro. In seguito molti occuparono posti di grande prestigio e responsabilità.
Egli aprì a Bombay e in altre zone dello stato del Maharastra, scuole professionali e agricole, con corsi diurni e serali, preparando migliaia di specialisti nel settore tecnico-industriale. In un paese dove l'esistenza di milioni di persone dipende dallo sviluppo agricolo-industriale, la preparazione di personale specializzato è fondamentale per lo sviluppo economico-commerciale.
Queste scuole, dotate di strumenti e macchine secondo le tecnologie più avanzate, avevano una attrezzatura e raggiungevano un livello culturale e professionale pari alle migliori scuole d'Europa.
- Ai nostri giovani, diceva padre Aurelio, oltre a una preparazione professionale che li mette in grado di inserirsi subito nel piano produttivo, diamo una solida formazione morale per farne, come diceva Don Bosco, degli onesti cittadini, e, per i cristiani, dei credenti capaci di vivere una vita di fede, cosciente e convinta.



Ai suoi missionari Don Bosco ha raccontato: «Prendetevi speciale cura dei malati, dei fanciulli, dei vecchi, dei poveri e guadagnerete le benedizioni di Dio e la benevolenza degli uomini».
Anche questo consiglio per padre Aurelio è stato un imperativo categorico, moltiplicando le opere, largheggiando in aiuti d'ogni genere nei confronti di quanti sono provati dalla fame, dalle malattie, dal dolore.
Nessuno ha mai bussato alla sua porta senza ricevere un soccorso generoso. La fame in India era una realtà tragica che toccava milioni di individui. Era chiamata «khala bagni», cioè «la tigre nera»; una tigre purtroppo invincibile, che ogni giorno divorava migliaia di vite, particolarmente quelle più deboli e indifese: i bimbi e i vecchi.
La fame toccava sovente nel paese momenti drammatici a causa delle inondazioni che spazzavano letteralmente via, in pochi istanti, centinaia di villaggi e relative coltivazioni, o per la prolungata siccità che bruciava l'unico raccolto di riso, alimento fondamentale della popolazione.
Erano migliaia i poveri che accorrevano da tutti i quartieri della città, nel grande viale accanto al santuario dell'Ausiliatrice, per ricevere dalle mani di padre Aurelio e dei suoi collaboratori un pane e una rupia (poco più di cento lire di allora), che permetteva loro di mangiare un piatto di riso, per sopravvivere, per non morire di fame.
- È una folla che cresce continuamente, sosteneva. Certi giorni superano le 5-6.000 persone e il dolore più grande è non poter dare di più.
La stessa Comunità Economica Europea, constatato quando don Aurelio operava per i poveri, inviava a lui direttamente, due-tre volte all'anno, tonnellate di latte in polvere, olio e burro che egli personalmente distribuiva ai più bisognosi, attraverso le varie istituzioni assistenziali.
Alti funzionari, dopo aver toccato con mano l'efficienza della sua organizzazione, gli scrissero: «È la prima volta che abbiamo l'assoluta certezza che tutto quello che inviamo venga distribuito ai poveri, fino all'ultimo grammo».



Accanto alla fame, l'altro flagello ancora più tragico che colpiva milioni di persone nella fascia dei paesi poveri era la lebbra.
Oltre alle sofferenze fisiche e alle spaventose mutilazioni, la malattia rende quanti sono colpiti, degli emarginati, rifiutati dalla famiglia e dalla società, condannati spesso a una vita randagia, guardati con sospetto e paura. Raoul Follereau, l'apostolo dei lebbrosi, li definiva: «la minoranza più sofferente e oppressa del mondo».
Le vittime più esposte erano i figli dei lebbrosi, che nascevano sani, ma erano anche i più soggetti a contrarre il terribile morbo, se non venivano sottoposti a cure preventive.
L'India era sicuramente uno dei paesi dove questo male era più diffuso. Nella sola città di Bombay, definita «la capitale della lebbra», si calcolavano in 100.000 le persone colpite dal morbo di Hansen. Molti di loro vivevano lungo le strade, mendicando, totalmente abbandonati a se stessi, diventando così portatori e diffusori del male.
I salesiani non avevano il compito specifico di curare i lebbrosi, ma il cuore di padre Aurelio non poteva rimanere indifferente di fronte alla tragedia di tanti poveri fratelli che nessuno ama e tutti respingono.
Matunga, località dove sorge la più grande opera da lui creata, è anche un centro nel quale vivevano migliaia di lebbrosi. Qui il più grande lebbrosario esistente accoglieva circa 800 malati e il nostro missionario era il loro benefattore più grande. Altre migliaia di lebbrosi ricevevano da lui aiuti di ogni genere: cibo, vestiario, medicine...
A Dehisar, un sobborgo alla periferia di Bombay, su una striscia di terreno tra la ferrovia e un canale di scolo, sorgeva un villaggio con 3.000 lebbrosi, che padre Aurelio e il suo infaticabile collaboratore padre Antonio Alessi, aiutarono in tutti i modi, attraverso l'eroica opera delle «Helpers of Mary», le «suore del sorriso». Per loro avevano creato le infrastrutture più essenziali: un piccolo ospedale con annesso dispensario, una scuola per i figli dei lebbrosi e tante capanne per i senza tetto.
Ad Assagaoon padre Aurelio aveva aperto un istituto per la cura dei bambini e ragazzi lebbrosi, che vivevano in condizioni di estrema miseria.
- Ma è sempre poco quello che facciamo, diceva; una goccia in un mare di sofferenze e di necessità.
Il grande progetto che aveva in animo era di raccogliere le molte famiglie di lebbrosi che vivevano sui marciapiedi della città, in un ampio villaggio dotato di ospedale, sale di riabilitazione, dispensario e centinaia di casette, una per ogni gruppo familiare, con annesso un piccolo giardino per coltivare ortaggi, frutta, allevare polli, maialini...
Per combattere la lebbra non erano sufficienti le cure medico-sanitarie, occorreva soprattutto l'igiene e una abbondante alimentazione. Un sogno che divenne realtà.



Don Aurelio aveva anche messo in piedi tutta una rete di collaborazione con religiosi e religiose attivi nell’assistenza medica o sociale. Una delle amicizie più belle fu quella con Madre Teresa di Calcutta. Ma sarebbero tanti i nomi da ricordare, dopo quello di Madre Teresa!
Lui e la famosa suora erano quasi coetanei. Lei era nata un anno dopo don Aurelio e morì un anno dopo di lui. Parte del loro cammino scorre su binari paralleli: anche Madre Teresa era nata da una famiglia facoltosa, era entrata giovane in un ordine religioso/educativo, era partita molto presto per l’India, e aveva passato un buon numero di anni in comunità, dedita all’educazione dei giovani. Anche lei era andata a vivere in una metropoli dove le persone morivano sui marciapiedi, con i piedi mangiati dai topi: Calcutta.
Fin lì la loro vita ebbe lo stesso canovaccio. Poi si separò. Anche don Aurelio si dedicò ai poveri, ma non lasciò la sua comunità. Invece di un impegno ne scelse due. L’incontro con l’umanità sofferente per Madre Teresa segnò il passaggio a una nuova spiritualità, quasi una nuova incarnazione che in India si chiamerebbe avatar: un ruolo nuovo. Dopo anni di preghiera, discernimento, dialogo con la sua superiora, capì che lei era chiamata non solo a lasciare la sua prima congregazione (famiglia), ma a fondarne una nuova, scegliendo un unico obiettivo per la sua vita: la compassione e la solidarietà per gli emarginati.
Don Aurelio sentì fortissimo lo stesso richiamo e forse a volte pensò di farne l’esclusivo scopo della sua vita. Ma il Signore non lo aveva chiamato a questo. In anni di sofferta crisi di identità, capì che la sua chiamata come salesiano restava sempre al centro della sua vita e della sua azione. Ad essa associò però anche la nuova chiamata, di soccorrere direttamente i sofferenti e la integrò, armonizzandola con la vocazione originaria e con gli impegni che essa comportava. Essa restò sempre il punto di riferimento del cammino della sua vita sociale e apostolica.
Mentre Madre Teresa indirizzava la sua solidarietà particolarmente verso i bambini abbandonati, gli anziani soli e i malati terminali o morenti, don Aurelio continuò a coltivare la predilezione verso i giovani, per aiutarli a crescere e raggiungere la pienezza della vocazione umana e spirituale. Offriva solidarietà e sollievo per la sopravvivenza di persone bisognose di tutto, ma non trascurava l’impegno a darsi da fare per la crescita e il futuro dei ragazzi e dei giovani.
Madre Teresa dava tutta la sua affettività e i sentimenti materni a persone nel loro “qui e adesso”, gente così malmessa che avrebbe potuto morire nel giro di poco tempo.
Si conoscevano e si apprezzavano a vicenda i due. Anch’egli, come Madre Teresa, con la sua tonaca di cotone bianco, da povero prete, appariva spesso sulle cronache cittadine. In qualche occasione Madre Teresa gli chiese una mano per le sue opere a Bombay e don Maschio fu felice di poterlo fare. Parecchie altre volte aiutò le sue suore a Bombay.
Quando un gruppo di ammiratori istituì la “Fondazione Aurelio Maschio”, che ogni anno conferiva un premio a persone impegnate nel servizio umanitario, Madre Teresa fu fra le prime ad essere prescelta.


Lei lo veniva a trovare volentieri quando il lavoro delle sue comunità la portava a Bombay e allora parlavano del loro lavoro e dei loro progetti di aiuto e di testimonianza cristiana. E quando per circa tre mesi, dal 18 giugno 1996 fino alla sua morte il 9 settembre, don Aurelio rimase in ospedale, la visita di Madre Teresa, anch’essa seriamente ammalata, gli portò gioia, consolazione e serenità. Si parlarono con voce sommessa, ma sempre con grande serenità.
Prima che ella partisse si scambiarono il rosario che ambedue tenevano in mano: così si sarebbero ricordati a vicenda nelle loro preghiere.
E si sarebbero incontrati entro un anno in cielo.

1 commento:

  1. io lho conosciuto per lettera, ho le sue lettere e le sue foto che mi inviava... mi invito ad andare in india per aiutarlo

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