sabato 18 giugno 2011

Komera cyanee - Coraggio


È un appello, oltre che un incoraggiamento, ai giovani d’oggi a cui sembrano mancare aspirazioni a spendere la loro vita per alti ideali, che non siano unicamente quelli di porsi al centro dell’attenzione, per momenti di notorietà fuggevole.
La testimonianza qui riportata risale agli inizi dell’attività di Chiara in Africa: una preparazione universitaria invidiabile, la possibilità di avviare una carriera diplomatica, considerata però insoddisfacente, se confrontata con l’esperienza pratica di condivisione della propria vita con quella di chi ha più bisogno.

Sono seguiti cinque anni trascorsi in Repubblica Democratica del Congo, alle prese tra l'altro con le procedure per il disarmo dei reduci della guerra civile, con il compito spesso disperato di recupero degli ex bambini soldato, coloro che porteranno per la vita insanabili turbe psichiche, disadattati a vivere normalmente, avendo smarrito la capacità di giudizio sui valori dell’esistenza.
Permanenza in Africa che si è trasformata in professione, quella dell’espatriata, l’unica che conosca, esibita quasi come un vanto, e che perciò rappresenta anche l’attesa prospettiva futura. Non prima di un periodo, tutt’altro che inoperoso, di ripresa di contatto con il mondo europeo, di cui sente comunque la propria appartenenza e l’importanza per la vita: il “mal d’Africa” è ora vissuto come una forma di nostalgia per le relazioni instaurate, tutte mai definitivamente abbandonate e, anzi, piacevolmente coltivate.
La permanenza negli anni laggiù è stata sicuramente resa più sostenibile dalla presenza del fidanzato, anche lui espatriato, conosciuto dopo due anni e con il quale progetta il futuro, e dai mezzi di comunicazione telematici che permettono quotidianamente un contatto con la famiglia e, in particolare, con la nonna da cui ha attinto in passato lo slancio per la vita.
Proprio la presenza di Internet sta facendo scoprire ai giovani africani l’esistenza del mondo occidentale, insinuando in loro il desiderio di inseguirne il miraggio. Mondo occidentale che è anche responsabile dello sfruttamento privo di scrupoli delle enormi risorse della terra africana, senza un adeguato compenso alla popolazione. Un mondo in piena trasformazione, dove tanto rimane ancora da fare, ma in cui la presenza e la testimonianza di un accompagnamento sono fondamentali.
Vivere è incontrare! È una massima che si addice all’esperienza di Chiara, sostenuta dal suo profondo convincimento nella fede, che, se altrimenti mancasse - sostiene -, renderebbe tutto privo di senso.
Il suo sorriso e il suo sguardo riflettono ad ogni istante la gioia interiore che l’accompagna nel suo viaggio…



Prendendo il meglio che le nostre due culture hanno da offrire
abbiamo creato un ritmo nuovo.... (Chiara)

A 25 anni sono stata contagiata, come molti, dal virus che chiamano "Mal d’Africa"! Io ne ho contratto la variante "rwandese", vivendo per tre mesi nella città di Gisenyi (Nord-ovest del Rwanda), dove ho scelto di svolgere il servizio civile volontario (Scv) all’estero con Caritas.               

Senza dubbio, a contagiarmi sono state le persone con cui ho avuto il privilegio di condividere questa tappa di cammino africano. Nelle righe che seguono, raccontandovi la mia storia, cercherò di infettare anche voi, di insinuare in voi un bacillo di questa malattia.     
Un bacillo, che se ben alimentato, faccia crescere la vostra curiosità per le splendide persone che abitano il Rwanda e per il Scv all’estero.               

All’inizio, questa esperienza più che una camminata è stata una corsa…          

L’idea di far domanda per il servizio civile volontario all’estero è nata nell’aprile scorso tra una corsa e l’altra, tra la Francia e l’Italia, dove stavo cercando lavoro. Alle spalle avevo sei mesi di esperienza in Brasile, un anno di collaborazioni con una Ong francese (Ccfd, Comité Catholique contre la Faim et pour le Développement), due anni di master in cooperazione internazionale a Parigi e una vita sempre a cento all’ora sospinta da un’irrefrenabile entusiasmo volto a cambiare il mondo. Dopata da cotanto bagaglio di vissuti, mi destreggiavo tra mille colloqui di lavoro con l’unico obiettivo di poter al più presto ripartire verso lidi più esotici dove mettere nuovamente alla prova in un progetto di sviluppo tutte le mie conoscenze.             

Fu proprio durante uno di questi colloqui che sentii per la prima volta parlare dell’opportunità di svolgere un anno di servizio civile volontario all’estero. Questa formula mi intrigò da subito poiché sembrava studiata appunto per i giovani come me, che non solo desiderano mettersi a disposizione dei più bisognosi, ma anche mettersi in gioco in prima persona confrontandosi con culture diverse. Così, una volta uscito il bando per il Scv (il 5 maggio 2005), presi contatto con le Ong che proponevano tale esperienza e ricominciai a correre su e giù per l’Italia per conoscerle di persona. Grazie alla soffiata di un caro amico, approdai infine alla Caritas ed al suo progetto di Scv all’estero chiamato Progetto caschi bianchi. In particolare mi colpì il progetto, intitolato "Riduzione della povertà e del disagio sociale nella città di Gisenyi", perché non era una semplice opera di carità, ma un vero e proprio piano strategico volto allo sradicamento della povertà i cui attori principali erano i poveri stessi.



Il 23 maggio passai il primo colloquio di selezione alla Caritas di Padova, che insieme a Caritas Italiana è responsabile dei progetti a Gisenyi, ed avendo fatto buona impressione mi mandarono poi a Roma per seguire due giorni di corso propedeutico al Scv. Finito il corso, ero sì sicura di voler fare questo tipo di esperienza, ma avevo mille dubbi rispetto alla destinazione: infatti, l’Africa in generale, ed il Rwanda in particolare, non mi aveva mai particolarmente stuzzicato. Fu solo il giorno prima dello scadere del bando che i miei dubbi si placarono e decisi di candidarmi proprio per il Scv con Caritas in Rwanda. Tale scelta fu suggerita dal cuore impressionato dallo stile di presenza Caritas, uno stile che pone l’accento sullo stare al fianco delle persone, sulla condivisione e sulla compassione intesa come patire con le persone.

In men che non si dica (nel giro di un mesetto) mi ritrovai quindi a dovermi preparare in fretta e furia per questa nuova esperienza: una settimana di corse d’inizio servizio a Roma con tutti gli altri caschi bianchi, due giorni di corso sulla microfinanza a Milano, tre giorni a Padova per conoscere meglio i progetti in cui avrei lavorato e poi finalmente il 16 luglio la partenza. L’adrenalina che avevo addosso e le corse per arrivare fino al Rwanda mi davano una carica incredibile che non vedevo l’ora di concretizzare nel fare…  

…poi qualcuno ha tirato il freno a mano …buhoro buhoro, muzungu…              

Invece, arrivata in Rwanda, mi sono "fracassata la testa" perché, mentre la mia vita correva a cento all’ora, qualcuno ha improvvisamente tirato il freno a mano. Da subito, la corsa è diventata un inutile dispendio di energie a confronto coi lunghi tempi africani e le immancabili attese. Ma io, imperterrita, sono andata avanti, tanta era la voglia di fare, di lavorare, di dare il mio contributo. Arrivata a Gisenyi, presa dalla smania del fare, mi sono subito rimboccata le maniche per inserirmi nel progetto di microfinanza presso cui avrei dovuto svolgere il mio servizio.

Così ho mosso i primi pesanti passi di corsa all’interno del Rim (Réseau Interdiocésain de Micro Finance) di Gisenyi: un’istituzione di microfinanza a livello nazionale che funziona come una vera e propria banca per i poveri, occupandosi da un lato della gestione dei risparmi su conti correnti e dall’altra erogando crediti alle Associazioni di Solidarietà Finanziaria (Assofi), composte in media da 40 persone. La peculiarità del Rim è che la garanzia del credito è una garanzia solidale, non materiale: ossia all’interno dell’Assofi ogni membro è responsabile per gli altri, se uno non rimborsa sono tutti gli altri membri a dover sopperire a tale mancanza. Questo sistema permette alti tassi di rimborso proprio perché nella società rwandese la pressione sociale è molto potente e quindi i membri sono obbligati a rispettare gli accordi, altrimenti l’intera comunità li marchia a vita di vergogna.
     

Sono bastati però pochi giorni di "lavoro" per capire che era impossibile riversare l’energia nel fare quando non si può usare il computer perché non c’è energia elettrica, quando si perde tempo a causa della contorta burocrazia rwandese, quando si aspettano invano per ore le persone che dovrebbero partecipare ad una riunione, quando comunicare è difficilissimo perché i beneficiari del progetto parlano solo kynarwanda. In tale contesto è normale quindi che si inneschi un senso di frustrazione: poiché non ero abituata a stare con le mani in mano, ho iniziato chiedermi: Che ci faccio io qui? Come posso lavorare in questo modo? Come posso dare il mio contributo? Ma chi me l’ha fatto fare?      
La frustrazione aumentava anche perché ovunque rivolgevo lo sguardo vedevo mille cose da fare, mille possibilità da concretizzare, ma ciò si scontrava con l’immobilismo e con la tacita rassegnazione dei rwandesi: avevo l’impressione che a loro non interessasse per nulla cambiare e migliorare la loro situazione di vita. Di fronte a questo mio shock, i miei colleghi di lavoro mi ripetevano continuamente la seguente frase: «Buhoro, buhoro, muzungo!», cioè «piano piano, uomo bianco!».

Di fronte all’insistenza con cui mi ripetevano questa frase e ricordandomi di ciò che mi aveva colpito nello stile Caritas (cioè l’idea dell’esserci e dello stare con), un giorno ho metaforicamente appeso le scarpe da corsa al chiodo e dall’immobilità ho iniziato a guardare nel dettaglio quello che mi succedeva accanto. E da subito mi è ritornato chiaro che l’essenziale dell’esperienza del Scv è la relazione, la relazione che si instaura tra le persone condividendo un tragitto di cammino insieme.

… ed ora devo imparare di nuovo a camminare …Komera cyanee!!!!

Nell’immobilità, ho realizzato che pure i rwandesi hanno un’incredibile voglia di fare, ma il loro ritmo è diverso da quello occidentale. Loro non corrono ma camminano piano piano, loro ritengono più importante il lavoro di relazione rispetto a quello d’ufficio, loro «non hanno orologi perché hanno il tempo», loro non fanno le cose in fretta ma con calma e riflessione…

Per rimettermi in carreggiata dopo il brusco stop, dovevo quindi imparare di nuovo a camminare con le persone. Camminando si ha infatti il fiato per parlare con loro e conoscerle veramente, si hanno orecchie per ascoltare le loro storie, si hanno occhi per vedere anche i piccoli importanti movimenti che permettono di cambiare le cose, si hanno mani per sorreggere chi si trova momentaneamente in affanno, si ha sorriso per rincuorare chi vorrebbe fermarsi e lasciarsi andare, si ha energia per condividere le piccole e le grandi cose.

Comunque ricominciare a camminare è stato un bello sforzo, sforzo che i colleghi, oramai diventati Amici, hanno salutato ripetendomi incessantemente: «Komera cyanee», cioè «Coraggio». Grazie alla loro vicinanza, grazie al loro sostegno, ed al loro frenarmi quando ricominciavo a prendere l’andatura della corsa, sono riuscita buhoro buhoro a camminare con loro. In questa nuova ottica, le attese da perdita di tempo si sono trasformate in ricchi momenti di scambio culturale, i tagli di elettricità sono diventati l’occasione per lasciare il computer e relazionarsi con la gente, il ritmo lento africano ha dilatato il tempo permettendomi di approfittare di molte più cose, la frustrazione è sparita lasciando spazio ad una rinnovata energia. Energia che si è potuta finalmente riversare nel fare anche piccole ed impercettibili cose, ma dense di significato: insegnare ai colleghi ad usare Excel per renderli indipendenti nel lavoro d’ufficio, presenziare in silenzio ad interminabili riunioni in kynarwanda per far vedere ai membri delle Assofi che non sono soli, fare chilometri a piedi solo per passare 5 minuti con una Assofi e darle il credito di cui ha bisogno per montare le sue attività…


Camminando insieme, la nostra equipe del Rim si è inoltre potuta contagiare reciprocamente. Prendendo il meglio che le nostre due culture hanno da offrire abbiamo creato un ritmo tutto nuovo che permette di mantenere l’efficienza dei risultati cara agli europei, senza però perdere di vista che il cuore della microfinanza sono proprio le persone e le relazioni con esse. Grazie anche al sostegno di Caritas Brescia, siamo inoltre riusciti a comprare una jeep che ci permetterà di raggiungere facilmente anche le Assofi più lontane e quindi di avere più tempo da dedicare al cammino con loro.

Paradossalmente, dopo tre mesi insieme, ora sono io che devo frenare le smanie di corsa e di ingrandimento dei miei amici rwandesi, dicendo loro «Buhoro, buhoro!».

Febbraio 2006






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