Padre Clemente Vismara (1897-1988), sacerdote del Pime, ha svolto tutta la sua opera missionaria nel «nascondimento» dei villaggi della Birmania (oggi Myanmar) . Nato ad Agrate Brianza (Milano) partì nel 1924 per il Paese asiatico dove restò per 65 anni, tornando una sola volta in Italia nel 1957. Ha fondato quattro distretti missionari, portando la comunità cattolica a circa duemila persone. Ancora oggi la sua figura è venerata dalle popolazioni locali, come testimoniano anche i numerosi bambini birmani che portano il suo nome: Clemente.
Oggi viene proclamato Beato in piazza del Duomo a Milano. Un cristiano che hanno vissuto una vita ordinaria in modo straordinario. Ha incontrato l’Amore di Dio e ha speso la sua vita per amore di chi ha incontrato. Quelli che seguono sono alcuni stralci di lettere dalla missione, pubblicate negli anni su riviste (in particolare Italia Missionaria e Le Missioni Cattoliche) e raccolte in un libro da Piero Gheddo.
Quelli che si convertono meglio e abbracciano la fede con sincerità e semplicità e con cuore, sono i giovani, i ragazzi. Le speranze dell’avvenire, le fondamenta sode di una missione stanno nei giovani. E per questi il missionario deve porre tutto l’impegno, tutto l’affetto, la cura massima.Data la durezza dei vecchi e la docilità dei giovani, ho raccolto più ragazzi che ho potuto. Sono tutti monelli, figli di pagani, con loro me la intendo così bene che mi son divenuti necessari. Essi sono la mia famiglia, i miei genitori, tutti i miei parenti, tutta l’Italia intera; con loro non ho bisogno di cercare altro affetto, con loro sono felice e di tutto risarcito. Altrettanto poi io sono per loro, credo. Figuratevi, mi chiamano anche quando sono addormentati!
Da qualche lato devo pur incominciare! Soppesati i pro e i contro, esaminato l’esaminabile e sperimentato il possibile, da pover’uomo sono venuto nella persuasione che la cosa principale, che racchiude tutte le altre, anche quelle spirituali, è che debbo insegnare ai miei ragazzi a lavorare. Tutto il resto delle perfezioni verrà da sé. Un cristiano che lavora è un buon cristiano, o se non lo è, lo diventerà; un ozioso, se non si desta... è fiato sprecato! Può tutt’al più far numero. Lavoro e pratica del Vangelo qui al mio paese sono sinonimi. Altrove, forse sarà differente, ma io non posso cambiare paese e per di più la mia, più che una residenza di uomo di spirito, è una fattoria: ci sono i cavalli, un gruppo di porci, capre, galline, colombi, vacche; tre carri da buoi.Tutto questo per far imparare il lavoro alla gente che mi circonda. Servi non ve ne sono, quindi si fa, più o meno bene, tutto da noi.
Far lavorare questa gente è press’a poco come far ballare l’orso. L’anello al naso ci vuole, sia pure temporaneo. Si deve cioè sempre incitare e fare tutti i movimenti che l’orso deve ripetere; la frusta viene sostituita dal semplice dito indice, teso in alto, come di chi insegna.
È una formazione tutta nuova per questa gente! Dai grandi si ottiene poco ma dai ragazzi, alla fine si ottiene. Ritornati nei loro villaggi, la loro famigliola è raro che soffra la fame; la gente stessa se ne meraviglia e qualche babbo si pente di non aver mandato il figlio a scuola ad imparare a lavorare.
Solo quando avrò formato dei galantuomini laboriosi, avrò evangelizzato. Solo così.
Oggi compio gli 80 anni. Dunque? Festa? Nessuno di coloro che mi circonda sa della ricorrenza. Silenziosamente mi faccio i più cordiali auguri di bene e prosperità.
Siamo nati nello stesso anno e stesso mese, io e Papa Paolo VI. Io sono meno giovane di venti giorni. Giustamente tutto il mondo s’interessa alla salute del Papa e di quanto fa. Il mio caso è alquanto differente: io sono medico di me stesso, se la febbre mi coglie non lo dico a nessuno – specie se mi trovo in un villaggio pagano che mi crede invulnerabile – e penso: forse sarà meglio che prenda una purga prima del chinino.
Ogni anno compero e consumo migliaia di pillole. Di chinino, durante la mia vita missionaria, ne ho inghiottito tanto che mi pare di essere immune dalla malaria.
Mi sono sempre arrangiato da solo, una vita da solitario.
Per essere in due missionari dovevo guardarmi allo specchio.
Di solito si rivedono i confratelli una sola volta l’anno, a Kengtung. Attualmente siamo in quattro padri: tre sono completamente sdentati, solo a uno, settantenne, rimane qualche dente. Il più giovane ha 68 anni, il più vecchio 80. Il governo ha molta stima di noi: ci vorrebbe lontani dai piedi, ci tiene a domicilio coatto. Per uscire dal proprio nido si deve ottenere il permesso scritto, dichiarare il motivo e ci vengono numerati i giorni. Eppure, a 80 anni, con la barba e i capelli bianchi, è supponibile che mi sia passata di testa ogni sciocchezza.
La vita è bella quando ci si vuol bene: è l’amore che fa vincere la vita. Ma io, quando sono arrivato qui ero solo, nessuno poteva amare me, straniero, il mondo che mi circondava era completamente pagano, non volevano, non potevano comprendere la mia dedizione. Io amavo senza essere amato.
Chi acconsente a portare la Croce, presto o tardi sarà inchiodato.
Tra vittorie e sconfitte, mi trovo sul campo da 55 anni e sempre battagliero. La vita è fatta per esplodere, per andare più lontano. Se essa rimane costretta entro i suoi limiti non può fiorire, se la conserviamo solo per noi stessi la si soffoca.
La vita è radiosa dal momento in cui si comincia a donarla.
Vivere solo la propria vita è asfissiante. Coraggio, padre Clemente, Iddio ti conceda di perseverare sino alla fine, rimani e fiorisci dove Dio ti ha piantato.
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